Quando nel lontano 1909 un certo Marcel Proust si avviava a rivoluzionare il rapporto fra la memoria e l’essere umano, servendosi per questo di un’opera fiume scaturita dalle sensazioni olfattive generate da una semplice madeleine, e dando vita a un’opera immortale, l’Italia aveva perso da poco più di due anni la propria gloria letteraria. Il poeta nazionale, Giosuè Carducci, si era infatti spento nella sua abitazione di Bologna il 16 febbraio 1907. La grandezza letteraria di un personaggio come Carducci è incommensurabile e tra la sua vastissima produzione artistica scegliamo di concentrarci, in queste righe, su una poesia in cui il tema della memoria appare come messaggio delicato e malinconico veicolato da compagni di eccezione: l’opera in questione è la splendida “Davanti a San Guido”.
Gli interlocutori che attirano l’attenzione del poeta, ormai assurto ad autentica gloria nazionale, sono infatti i cipressi che da Bolgheri sembrano accogliere, Alti e schietti, in duplice filar, i viaggiatori fino all’oratorio di San Guido. E così, un viaggio in treno altrimenti anonimo e faticoso si trasforma in un intenso dialogo con i Fedeli amici di un tempo migliore, che sembrano quasi convinti di aver di fronte il birichino di tanti anni prima, spensierato e allegro: davanti a questo equivoco il poeta respinge tale idea e sottolinea con orgoglio di essere ormai qualcos’altro, cioè una celebrità. Ecco però che la natura, con disarmante semplicità, si rivolge all’uomo con un materno rimprovero, affettuoso ma fermo: un mormorio di disapprovazione e poi vere e proprie parole dicono al poeta di conoscere l’umana tristezza a cui anche lui, inevitabilmente, è soggetto. È come se gli alberi, prendendolo per mano, lo accompagnassero fino all’infanzia per fargli recuperare quella purezza che l’età adulta, con la maturità, sembra quasi avergli fatto smarrire, quella purezza che consente anche ai grandi uomini di avere il coraggio di fare i conti con le proprie debolezze, con i propri dolori.
È la natura come incarnazione della grandezza del creato che guida i versi dell’opera, che sembra orchestrare il ritmo, i ricordi, le sensazioni le quali, copiose, invadono ogni singola immagine tramandataci da questo viaggio lungo tutta una vita. E alla fine, dopo il tenero ricordo della cara Nonna Lucia, il poeta scorge un asino, intento nella sua attività più importante: mangiare con fare compassato un cardo rosso e turchino, del tutto imperturbabile. Ancora una volta la natura sembra ridimensionare l’egocentrismo umano, riconducendo tutto ad una sorta di suprema e immutabile eguaglianza fra gli esseri viventi. Ferdinando Morabito