La lettura dei grandi classici, purtroppo, non va tanto di moda oggi; in verità è proprio la lettura a 360° ad essere un po’ snobbata, per cui il particolare segmento degli autori immortali dei secoli scorsi si trova a soffrire in maniera particolare per questa disaffezione generale. Peccato, perché bollare come superati, noiosi o pesanti alcuni libri significa arroccarsi su giudizi superficiali e, per di più, del tutto inadeguati alla realtà.
Tra gli autori che hanno dato lustro alla letteratura e che oggi non sono sufficientemente sponsorizzati rientra di sicuro Emile Zola, esponente di spicco del Naturalismo e figura di riferimento tra gli autori francesi dell’Ottocento.
Senza dilungarci troppo sulle immense qualità di questo scrittore, preferiremmo in questa sede soffermarci in particolare su un romanzo: “La Cuccagna”, il cui titolo originale è “La Curée”, tradotto talvolta anche con “La Preda”.
L’opera in questione è il secondo libro dei venti che compongono il ciclo dei “Rougon-Macquart”, è datato 1871 e racconta la scabrosa passione di Renata per il giovane Massimiliano, figlio di primo letto di Aristide Saccard, il quale ha sposato in seconde nozze proprio Renata. La scandalosa relazione della protagonista col proprio figliastro va molto oltre la piega meramente sensazionalistica degna del gossip odierno, e sembra contenere in nuce la contrapposizione fra la carnalità e la speculazione, fra i sensi e l’ambizione, fra la natura e il cemento. È come se l’autore, senza schierarsi da una parte o dall’altra, senza eleggere buoni o cattivi, tracciasse il profilo di una natura profondamente umana, capace di trascinarsi in qualcosa di inequivocabilmente “scorretto”, ma vero, quasi bestiale per la propria autenticità, per metterla al cospetto di una natura artificiosa, cementificata come la Parigi che attrae coloro i quali hanno come scopo unico nella vita il denaro; è questo sorgere di mondi inconciliabili, incarnati rispettivamente da Renata e da suo marito Arisitide, che dà vita al dramma del romanzo.
È però Renata a dominare la scena, soprattutto nelle pagine in cui il suo istinto di essere umano sembra fondersi coi richiami della natura: è come un abbandonarsi alla forza della terra, dei fiori, delle piante. È come se Renata, con la forza della disperazione, tentasse di redimere l’umanità, ancorandola al richiamo ancestrale della natura e distogliendola dal richiamo avveniristico del cemento. E proprio nella serra di casa, che “…sfoggiava una ricca vegetazione di piante grasse, di abbondanti distese di fiori e di larghi tappeti di verde…”, la protagonista cede al potere inebriante della natura e si ribella all’accettazione incondizionata del mondo esterno, che procede a vele spiegate verso un futuro di soldi, cemento e speculazione, dove la ricchezza immediata nasconde, col suo arido velo, un domani fatto di felicità effimera. Renata però finirà per soccombere, mentre Aristide e il cemento di Parigi abbracceranno nella propria implacabile morsa quel futuro rappresentato dal giovane Massimiliano.
Ferdinando Morabito