Le commissioni Ambiente e Attività produttive della Camera hanno approvato nei giorni scorsi il documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sulla green economy avviata ad ottobre 2013.
Il lungo documento comincia con una citazione di Luigi Einaudi, Economia di concorrenza e capitalismo storico. La terza via fra i secoli XVIII e XIX, in «Rivista di storia economica», giugno 1942: “Chi cerca rimedi economici a problemi economici è su falsa strada; la quale non può che condurre se non al precipizio. Il problema economico è l’aspetto e la conseguenza di un più ampio problema spirituale e morale».
I lavori sono passati attraverso audizioni di realtà attive nel settore: Fondazione per lo sviluppo sostenibile; coordinamento FREE; prof. Riccardo Pietrabissa, presidente del network per la valorizzazione della ricerca universitaria; Enel e Fondazione Studi Enel; Enea; Ambiente Italia; Unioncamere e Symbola; Green Building Council Italia; CNR; rappresentanti di ANCE; Rete Imprese Italia; Legambiente; CGIL, CISL, UIL e UGL; Assorinnovabili; Kyoto Club; Alleanza delle Cooperative Italiane; ANCI; Prof. Riccaboni, Rettore dell’Università di Siena, Confindustria, Confagricoltura, Coldiretti, CIA, Copagri, Consorzio Remedia, Federambiente, FISE Assoambiente, TESLA Italia mobilità green; Novamont; Gruppo Mossi e Ghisolfi; KiteGen; Finco; Cobase; Anida; Fater Spa. Si sono poi svolte, con singole sedute, le audizioni del Ministro dell’istruzione, dell’università e della Ricerca, Stefania Giannini (27 maggio 2014), del Viceministro dello sviluppo economico Claudio De Vincenti (4 giugno 2014), del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, Gian Luca Galletti (10 giugno 2014) e del sottosegretario di Stato per le politiche agricole, alimentari e forestali, Giuseppe Castiglione (11 giugno 2014). Le Commissioni hanno inoltre acquisito specifiche memorie di Greenpeace ed Eni, che non hanno potuto partecipare alle audizioni
Dal testo:
1. L’avvio dell’indagine conoscitiva: il programma.
Le Commissioni congiunte VIII Ambiente e X Attività produttive hanno deliberato lo svolgimento dell’indagine conoscitiva in titolo il 30 ottobre 2013, istituendo per tale finalità un apposito Comitato di indagine, composto da una rappresentanza di tutti i gruppi politici presenti nelle due Commissioni, con lo scopo specifico di poter procedere in maniera più agile allo svolgimento del ciclo delle audizioni. Si riporta di seguito il programma dell’indagine, approvato dalle due Commissioni.
«L’esigenza delle due Commissioni di procedere allo svolgimento di un’indagine conoscitiva sulla cosiddetta green economy nasce dalla considerazione che, dinanzi a una crisi economica che prosegue senza soluzione di continuità da cinque anni, e ha riportato l’Italia ai livelli di ricchezza dei primi anni duemila, creando emergenze sociali drammatiche quale l’elevato tasso di disoccupazione giovanile, occorre rivedere i modelli di crescita del Paese. In questo quadro la green economy può rappresentare un’importante occasione per contrastare la crisi e per dare slancio all’economia.
Le problematiche ambientali costituiscono, insieme alla necessità di un utilizzo sostenibile delle risorse naturali, un criterio guida essenziale per il rinnovamento dei modelli produttivi.
Occorre quindi puntare su una nuova visione del sistema economico fondata su maggiore condivisione, che passa necessariamente attraverso la sostenibilità dello sviluppo. In questa prospettiva occorrerà puntare su nuove tecnologie, sulle fonti rinnovabili, sull’efficienza energetica, sulla ricerca e sull’innovazione, sulla tutela e sulla promozione del patrimonio naturale e culturale, per riprendere un cammino di sviluppo durevole e sostenibile.
Numerosi e autorevoli studi anche internazionali hanno affrontato e analizzato le opportunità di un’economia verde per uscire dalla crisi. Basti pensare sul piano internazionale al Rapporto UNEP 2011 «Towards a Green Economy: Pathways to Sustainable development and Poverty Eradication», al Rapporto OCSE 2012 «Towards Green Growth» o alle Comunicazione europee «Rio+20: verso un’economia verde e una migliore governance» (COM/2011/363/definitivo) e «Una tabella di marcia verso un’economia competitiva a basse emissioni di carbonio nel 2050 » (COM/…../…../definitivo).
I citati documenti nel panorama internazionale hanno fatto riferimento a diverse definizioni di «economia verde»: a partire dalla definizione di green economy dell’UNEP, volta al miglioramento del benessere sociale, alla riduzione dei rischi ambientali e a un uso efficiente delle risorse, fino a quella di «crescita verde» coniata dall’OCSE, che promuove un modello di sviluppo in grado di garantire alle nuove generazioni le risorse e i servizi ambientali su cui si basa il benessere, e a quelle concernenti lo sviluppo sostenibile e l’utilizzo efficiente delle risorse a livello delle istituzioni europee. Alle diverse definizioni internazionali, comunque, corrisponde ormai una visione centrata sulla green economy come strategia di sviluppo basata sulla valorizzazione del capitale economico, naturale e sociale. L’importanza di puntare sulla green economy nelle strategie europee di sviluppo è stata, inoltre, recentemente ribadita dal commissario europeo all’ambiente Janez Potocnik che, secondo quanto riportato da fonti di stampa, nel discorso di chiusura della Green Week svoltasi nel mese di giugno 2013, ha annunciato che il 2014 sarà l’anno della green economy.
La green economy non è solo il modello di sviluppo ormai convintamente indicato a livello internazionale ed europeo, ma anche il modello più aderente alle caratteristiche dell’Italia, più in grado di tenere insieme e di rinvigorire gli elementi fondamentali dell’identità italiana: la bellezza del patrimonio storico-naturalistico e la qualità delle produzioni, la creatività e l’operosità degli imprenditori e dei lavoratori, la coesione sociale e il rapporto stretto fra economia, territorio e comunità. Su queste basi programmatiche, le Commissioni riunite VIII (Ambiente, territorio e lavori pubblici) e X (Attività produttive) della Camera dei deputati ritengono opportuno procedere allo svolgimento di un’indagine conoscitiva sullo stato e sulle prospettive della green economy nel nostro Paese.
L’indagine è finalizzata a:
1) individuare il perimetro della green economy, e quindi il contributo che a livello economico-produttivo e a livello ambientale può derivare da tale modello di sviluppo, analizzando anche le potenzialità in termini occupazionali (creazione di nuovi posti di lavoro e di nuove competenze professionali) e di costruzione di nuovi e più elevati percorsi di istruzione e di formazione professionale;
2) delinearne la mappa geografica (presenza nelle diverse aree del Paese) e produttiva (dimensione nel settore manifatturiero, ma anche nell’agricoltura e nel terziario);
3) conoscere i dati sulla green economy nei maggiori Paesi europei ed extraeuropei;
4) valutare l’efficacia delle politiche fiscali e industriali attualmente vigenti ai fini della loro effettiva capacità di influenzare lo sviluppo in termini di maggiore eco-sostenibilità, e individuare nuove più efficaci misure di fiscalità ambientale capaci di orientare maggiormente l’economia verso l’innovazione ecologica;
5) analizzare possibili politiche di sostegno alla riconversione green di aziende altamente impattanti;
6) eseguire una ricognizione completa delle misure e degli strumenti di governance dello sviluppo delle tecnologie e delle produzioni verdi, sia relativamente agli specifici settori dell’ecoinnovazione, dell’industria del riciclo, del risparmio e dell’efficienza energetica (in primo luogo nell’edilizia e nei trasporti, ma anche nelle apparecchiature, nell’illuminazione, nei processi produttivi, ecc.), delle fonti energetiche rinnovabili, delle filiere agricole ad alta valenza qualitativa e ambientale, dei servizi ecosistemici (dalla tutela e valorizzazione delle aree protette e dei suoli agricoli, alla conservazione e all’uso efficiente delle risorse idriche e del patrimonio forestale), sia relativamente a profili fiscali e di servizi di credito a sostegno dei processi di eco-convergenza dell’economia italiana.
7) verificare la sussistenza di eventuali profili problematici del modello di sviluppo green economy, individuando proposte normative tese a superare gli aspetti distorsivi eventualmente individuati in un’ottica di maggiore efficienza e produttività.
L’indagine vuole porsi come contributo concreto alla formazione di una nuova agenda politica nella quale l’ambiente da vincolo possa diventare opportunità economica immediata e la green economy sia posta come orizzonte strategico delle scelte di fondo dell’azione del Governo, nelle politiche di bilancio e in quelle fiscali, nelle politiche per la ricerca e per l’innovazione e in quelle per l’occupazione e la formazione, nelle politiche per la difesa del territorio e in quelle per la promozione produzioni agroalimentari, nelle politiche per la competitività del sistema industriale e in quelle per gli investimenti infrastrutturali.
L’indagine si articolerà nelle audizioni dei seguenti soggetti:
Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare;
Ministro dello sviluppo economico;
Ministro dell’economia e delle finanze;
altri Ministri titolari di dicasteri con competenze nel settore della green economy; quali ad esempio il Ministro del lavoro, il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca e il Ministro dell’agricoltura.
Conferenza dei Presidenti delle regioni;
ANCI;
rappresentanti del mondo imprenditoriale;
esponenti del mondo universitario, dell’economia e della ricerca;
rappresentanti dell’associazionismo sindacale;
rappresentanti delle associazioni ambientaliste;
rappresentanti di istituzioni e enti aventi competenza nel settore della green economy;
rappresentanti delle associazioni e fondazioni operanti nell’ambito dello sviluppo sostenibile e delle energie rinnovabili, nonché esponenti di enti e organismi che hanno effettuato studi in materia di green economy;
rappresentanti delle istituzioni europee;
rappresentanti delle associazioni di categoria».
L’indagine si è articolata in specifiche sessioni di lavoro svolte il 21 novembre 2013 (audizioni di rappresentanti di Fondazione per lo sviluppo sostenibile; coordinamento FREE; prof. Riccardo Pietrabissa, presidente del network per la valorizzazione della ricerca universitaria; Enel e Fondazione Studi Enel; Enea; Ambiente Italia; Unioncamere e Symbola; Green Building Council Italia; CNR), il 22 novembre 2013 (audizioni di rappresentanti di ANCE; Rete Imprese Italia; Legambiente; CGIL, CISL, UIL e UGL; Assorinnovabili; Kyoto Club; Alleanza delle Cooperative Italiane; ANCI; Prof. Riccaboni, Rettore dell’Università di Siena), il 13 dicembre 2013 (audizioni di rappresentanti di Confindustria, Confagricoltura, Coldiretti, CIA, Copagri, Consorzio Remedia, Federambiente, FISE Assoambiente) il 21 marzo 2014 (audizioni di rappresentanti di TESLA Italia mobilità green; Novamont; Gruppo Mossi e Ghisolfi; KiteGen; Finco; Cobase; Anida; Fater Spa). Si sono poi svolte, con singole sedute, le audizioni del Ministro dell’istruzione, dell’università e della Ricerca, Stefania Giannini (27 maggio 2014), del Viceministro dello sviluppo economico Claudio De Vincenti (4 giugno 2014), del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, Gian Luca Galletti (10 giugno 2014) e del sottosegretario di Stato per le politiche agricole, alimentari e forestali, Giuseppe Castiglione (11 giugno 2014).
Le Commissioni hanno inoltre acquisito specifiche memorie da quei soggetti che, pur interpellati ed interessati, non hanno potuto partecipare alle audizioni: si tratta di Greenpeace e ENI.
Di tali audizioni e dei materiali inviati si troveranno, alla sezione 3 del presente documento, le singole sintesi.
2. La green economy nelle strategie internazionali e dell’Unione europea.
Negli ultimi anni, a livello internazionale, sono stati pubblicati documenti e strategie, che hanno affrontato e analizzato le opportunità di un’economia verde per uscire dalla crisi. Di rilevante importanza, in tale contesto, il dibattito che si è svolto nell’ambito del Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite (United Nations Environment Programme – UNEP), dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) e dell’Unione europea.
Nell’ambito dell’UNEP, e precisamente nel rapporto del 2011 dal titolo «Towards a Green Economy: Pathways to Sustainable development and Poverty Eradication», si fa riferimento all’«economia verde», come a un’economia volta al miglioramento del benessere umano e all’equità sociale, che nel contempo riduce i rischi ambientali e la limitatezza delle risorse a livello ecologico (ecological scarcities). Il concetto di green economy si basa su un’approfondita analisi economica, che si articola in una serie di settori-chiave in grado di guidare una transizione verso l’«economia verde»: dal capitale naturale (agricoltura, pesca, acqua, foreste) all’energia e all’efficienza delle risorse (energie rinnovabili, manifattura, rifiuti, edilizia, trasporti, turismo, città). In sostanza, una crescita del reddito e dell’occupazione dovrebbe essere guidata da investimenti finalizzati a ridurre le emissioni di carbone e l’inquinamento, migliorare l’efficienza delle risorse e dell’energia, nonché prevenire la perdita della biodiversità e dei servizi ecosistemici. Secondo quanto riportato nel rapporto dell’UNEP, una trasformazione globale dell’economia verso la green economy richiederebbe investimenti consistenti nell’ordine del 2 per cento del prodotto interno lordo mondiale dal 2011 al 2050, investimenti che dovrebbero porre una particolare attenzione ai settori dell’energia, dell’edilizia e dei trasporti.
L’OCSE, nel rapporto del 2012 «Towards Green Growth», fa riferimento a una strategia di «crescita verde», che è basata su aspetti di politica economica ed ambientale capaci di integrarsi a vicenda. È una strategia che riconosce il pieno valore del capitale naturale e il ruolo chiave dell’innovazione e la cui applicazione necessita di un mix di strumenti nell’ambito di:
interventi volti a rafforzare la crescita economica, nel contempo assicurando la conservazione del capitale naturale, tra i quali misure di politica fiscale e di concorrenza, nonché per l’innovazione;
interventi volti a incentivare l’uso efficiente delle risorse e a rendere più costoso l’inquinamento.
Parimenti necessari saranno anche interventi per predisporre, tramite azioni programmatiche, una rete di infrastrutture adeguata alle tecnologie della prossima generazione, specialmente nell’ambito delle reti energetiche, idriche, di trasporto e di telecomunicazione. Considerata l’ampia portata degli investimenti necessari nella maggior parte dei Paesi, l’OCSE reputa necessario utilizzare i finanziamenti pubblici e privati e assicurare il massimo coordinamento possibile tra i ministeri e i diversi livelli amministrativi, nonché con i soggetti esterni interessati. La definizione di un pacchetto di strategie di intervento applicabile alle diverse realtà locali dipende, infatti, dallo sviluppo di una capacità istituzionale adeguata, che può assicurare l’integrazione della «crescita verde» nelle principali strategie economiche e nell’agenda degli altri interventi governativi. Far confluire politiche di crescita verde e obiettivi di riduzione della povertà è, inoltre, un aspetto importante del processo di adattamento di tale quadro ai Paesi emergenti e in via di sviluppo.
L’OCSE ha, inoltre, pubblicato l’anno scorso un «Rapporto sulle performance ambientali dell’Italia», che analizza i progressi compiuti a fronte degli impegni ambientali assunti a livello nazionale e internazionale e presenta alcune raccomandazioni per il miglioramento delle performance. Una parte della valutazione riguarda proprio i progressi verso la crescita verde.
Anche a livello di Unione europea, negli ultimi anni, si è svolto un intenso dibattito sulle tematiche dell’«economia verde». La Commissione europea ha, infatti, pubblicato documenti importanti come la comunicazione Rio+20: verso un’economia verde e una migliore governance (COM(2011)363) e l’agenda per l’efficienza delle risorse stabilita nell’ambito della strategia Europa 2020 sulla crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. In particolare, con la tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse, presentata nel 2011 (COM(2011)571), la Commissione ha proposto un quadro d’azione e ha sottolineato la necessità di un approccio integrato in molti settori d’intervento e a più livelli. In tale tabella la transizione verso un «economia circolare», in cui i rifiuti costituiscono una risorsa, ha un ruolo centrale.
Nel giugno 2013, il Commissario europeo dell’Ambiente aveva dichiarato che il 2014 sarebbe stato dedicato alla green economy, per stimolare la trasformazione dell’economia europea in un’economia circolare, puntando, in particolare, ad un uso più efficiente delle risorse. L’obiettivo principale è quello di aiutare la transizione verso un’economia a basse emissioni di CO2 e resiliente ai cambiamenti climatici.
I citati documenti nelle strategie internazionali fanno riferimento a diverse definizioni di «economia verde»: a partire dalla definizione di green economy dell’UNEP, volta al miglioramento del benessere sociale, alla riduzione dei rischi ambientali e a un uso efficiente delle risorse, fino a quella di «crescita verde» dell’OCSE, che promuove un modello di sviluppo in grado di garantire alle nuove generazioni le risorse e i servizi ambientali su cui si basa il benessere, e a quelle concernenti l’utilizzo efficiente delle risorse a livello delle istituzioni europee. Alle diverse definizioni internazionali, comunque, corrisponde ormai una visione centrata sulla green economy come strategia di sviluppo basata sulla valorizzazione del capitale economico, naturale e sociale.
2.1. Le recenti iniziative europee.
Lo scorso 2 luglio la Commissione europea ha presentato un pacchetto di misure nel quadro della comunicazione «Verso un’economia circolare: un programma a zero rifiuti per l’Europa» (COM(2014)398), che si basa sul presupposto che da un uso più efficiente delle risorse deriveranno nuove opportunità di crescita e occupazione. La transizione verso un’economia circolare richiede modifiche sostanziali, che implicano l’adozione di nuovi modelli di mercato, nuove modalità di trasformare rifiuti in risorse, nuovi modelli di comportamento dei consumatori. Il pacchetto che accompagna la comunicazione intende creare il contesto che aiuterà a realizzare l’economia circolare, con politiche meglio integrate e con il sostegno delle attività di ricerca e innovazione. Ciò, ad avviso della Commissione, permetterà di sbloccare gli investimenti e attrarre i finanziamenti, incentivando, nel contempo, la partecipazione dei consumatori e il coinvolgimento delle imprese.
Il pacchetto, oltre alla comunicazione sull’economia circolare, consta delle proposte seguenti:
il «Piano d’azione verde per le PMI: aiutare le PMI a trasformare le sfide ambientali in opportunità di business». Si tratta di una comunicazione (COM(2014)440) che individua una serie di iniziative, proposte a livello europeo e indirizzate alle piccole e medie imprese (PMI), per aiutarle a sfruttare le opportunità offerte dal passaggio a un’economia verde, rendendo più efficiente la gestione delle risorse, promuovendo l’imprenditorialità verde, sfruttando le opportunità offerte da catene del valore più verdi e facilitando l’accesso al mercato delle PMI verdi; la comunicazione «Opportunità per migliorare l’efficienza delle risorse nell’edilizia» (COM(2014)445), che reca proposte per ridurre l’impatto ambientale degli edifici ristrutturati e di nuova costruzione, migliorando l’efficienza delle risorse e aumentando le informazioni disponibili circa le prestazioni ambientali degli edifici;
la comunicazione «Iniziativa per favorire l’occupazione verde: sfruttare le potenzialità dell’economia verde di creare posti di lavoro» (COM(2014)446), che reca un quadro integrato per consentire alle politiche del mercato del lavoro di svolgere un ruolo attivo a sostegno della transizione verso l’economia verde. In particolare, la comunicazione si concentra sull’importanza di anticipare e definire politiche delle competenze adeguate a sostenere i lavoratori nel far fronte al cambiamento strutturale, ad assicurare le transizioni nel mercato del lavoro, e a rafforzare la governance e le iniziative basate sul partenariato;
la proposta di direttiva (COM(2014)397), che modifica le direttive sui rifiuti (2008/98//CE), sugli imballaggi (94/62/CE), sulle discariche (1999/31/CE), sui veicoli fuori uso (2000/53/CE), sulle batterie ed accumulatori (2006/66/CE) e sui rifiuti elettrici ed elettronici (2012/19/CE).
3. Sintesi delle audizioni svolte e dei materiali inviati.
3.1 Associazioni di categoria.
Fondazione per lo sviluppo sostenibile.
La Fondazione per lo sviluppo sostenibile ha fatto da supporto tecnico all’organizzazione degli Stati Generali della green economy, processo partecipativo fondato sul modello della Grenelle de l’environnement francese, che ha portato all’elaborazione di una serie di proposte concrete e di una piattaforma per lo sviluppo della green economy in chiave green new deal, ossia di sviluppo e di risanamento e di prospettiva di crescita per l’Italia. La piattaforma che è stata sviluppata è molto complessa, ma è sintetizzata in dieci proposte principali.
La Fondazione ha, inoltre, illustrato il modo in cui si è sviluppato il processo partecipativo degli Stati Generali promossi dal Consiglio nazionale della green economy. Più in particolare i lavori del Consiglio sono stati suddivisi in 10 gruppi di lavoro, costituiti da rappresentanti di impresa, di organizzazioni di imprese, della società civile, della comunità scientifica, nonché da tutti gli stakeholder coinvolti in questo processo. I settori coinvolti vanno dall’ecoinnovazione al riciclo dei rifiuti, all’efficienza delle materie, fino all’efficienza energetica. I gruppi di lavoro hanno prodotto dei documenti istruttori che sono stati poi sottoposti a una consultazione pubblica aperta alla più ampia partecipazione. Sulla base dei contributi pervenuti, i dieci gruppi di lavoro hanno quindi costruito documenti finali.
Dieci sono le misure prioritarie che formano il pacchetto di green new deal immediatamente attivabili e a costo zero. La prima proposta è la riforma fiscale in chiave ecologica a saldo netto zero. L’idea è quella di attivare, anche attraverso una carbon tax, uno spostamento della fiscalità in chiave ecologica. La seconda è quella di attivare programmi per un miglior utilizzo delle risorse europee e per sviluppare strumenti finanziari innovativi per le attività della green economy. La terza proposta è l’attivazione di investimenti che si ripagano con la riduzione dei costi economici oltre che ambientali: il tema centrale di questa proposta sono gli investimenti in infrastrutture verdi.
La quarta proposta è quella di un programma nazionale di misure per l’efficienza e il risparmio energetico, con una road map di obiettivi chiari da qui al 2030: tra le misure proposte, c’è quella di rendere permanente e stabile la detrazione fiscale del 65 per cento per la riqualificazione energetica degli edifici. La quinta proposta è l’attivazione di misure per sviluppare le attività di riciclo dei rifiuti. La sesta proposta è data dalla promozione del rilancio degli investimenti per lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili: in particolare la Fondazione segnala che eventuali interventi con effetti retroattivi su sistemi di incentivazione esistenti scoraggiano gli investitori e che sarebbe necessario uscire da un sistema basato sulle tariffe, per passare a misure quali le detrazioni fiscali, che potrebbero costare molto poco e avere degli impatti molto grandi. Inoltre il rapporto del Green growthgroup europeo stima la creazione di 6,5 milioni di nuovi posti di lavoro a livello europeo da qui al 2020, lavorando su efficienza energetica e fonti rinnovabili La settima proposta è rappresentata dall’attuazione di programmi di rigenerazione urbana, di recupero di edifici esistenti, di bonifiche, fermando il consumo di suolo non urbanizzato. L’ottava proposta è quella di una mobilità sostenibile: secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia, il 40 per cento del potenziale di riduzione delle emissioni di CO2 è nei trasporti. La nona proposta investe il tema dell’agricoltura attraverso un sistema di detrazioni fiscali e un fondo specifico per sostenere l’agricoltura di qualità e biologica. La decima e ultima proposta riguarda il tema dell’occupazione giovanile lanciando un piano nazionale per l’occupazione giovanile nella green economy, ad esempio, attraverso la riduzione per tre anni del prelievo fiscale e contributivo per l’impiego dei giovani.
Coordinamento FREE.
Nell’ambito dell’audizione sono stati, innanzitutto, illustrati i dati del Secondo Rapporto GreenItaly 2013 precisando che sono quasi 328 mila le imprese che hanno investito nel periodo e/o investiranno, entro la fine del 2013, in tecnologie green, con effetti positivi sulla competitività (maggiore export, minori costi, migliore qualità dei prodotti) e sull’occupazione (il 38 per cento delle assunzioni proviene da aziende «verdi»). Per quanto concerne il settore della mobilità, è stato portato ad esempio il car sharing, come interessante esperienza che riduce le spese complessive e il numero di auto sulle strade. A tale proposito è stato evidenziato che occorrerebbe una normativa che ne codifichi e semplifichi l’uso, che preveda un unico gestore nazionale e una quota rilevante di auto alimentate a biometano, con biocarburanti, ibride plug-in ed elettriche. Per quanto riguarda la chimica verde, il Coordinamento FREE sottolinea che il nostro Paese vanta attualmente eccellenze di valore mondiale che stanno consentendo di trasformare il vecchio e inquinante petrolchimico di Porto Torres in una bioraffineria, ma il settore potrebbe contribuire significativamente alla ripresa dell’economia, se si definisse una normativa nazionale che razionalizzi la realizzazione di nuove bioraffinerie, ne riconosca le esternalità ambientali e sociali, e nel contempo promuova la conoscenza delle innovazioni all’opinione pubblica. Infine per quanto attiene alle fonti rinnovabili e all’efficienza energetica, il Coordinamento FREE propone:
la sostituzione degli incentivi con un mix di sgravi fiscali e crediti agevolati per le tecnologie FER più mature;
l’utilizzo della restante parte degli incentivi per promuovere le altre tecnologie FER elettriche con una quota rilevante di costi di esercizio (biomasse e biogas), con diversa maturità tecnologica o un differente livello di sviluppo industriale (solare termodinamico, piccolo eolico, geotermia a bassa e media entalpia);
la semplificazione delle attuali procedure per le piccole installazioni;
la detrazione fiscale del 50 per cento per le persone giuridiche che sostituiscono coperture in amianto con il fotovoltaico.
Il Coordinamento FREE auspica la creazione di un fondo di garanzia, con adeguata dotazione finanziaria, che fornisca alle banche assicurazioni sufficienti a indurle a fornire crediti al settore: in alternativa o in via integrativa, la Cassa Depositi e Prestiti potrebbe avviare un fondo chiuso, sia di venture capital che di private equity, dedicato all’efficienza energetica e alle fonti rinnovabili, come recentemente fatto in altri comparti.
Green Building Council Italia.
GBC Italia è acronimo di Green building councilItalia, un’associazione no profit nata circa 5 anni fa, nel 2008, in Italia e che si basa sulla partecipazione attiva e plurale di attori dell’intera filiera del settore costruzioni, sia pubblici sia privati, inclusiva e aperta. Ha quale obiettivo quello di trasformare il mercato, in particolar modo quello del settore delle costruzioni, cercando di introdurre tematiche di riduzione di impatto ambientale, di qualità degli ambienti interni e di utilizzo di materiali adeguati. I soci a livello internazionale sono circa 500. Green building council mira a diffondere un sistema volontario di certificazione delle performance della sostenibilità degli edifici e dei quartieri, che si chiama LEED, acronimo di Leadership in Energy and Environmental Design, che ha l’obiettivo di cercare di ridurre le emissioni del settore degli edifici, che è quello che impatta maggiormente sull’ambiente.
Tale protocollo energetico ambientale non analizza solo l’aspetto energetico, benché assolutamente preponderante, ma anche la sostenibilità del sito, la gestione delle acque, i materiali, la qualità ambientale interna, quindi il comportamento idrotermico negli ambienti, acustico e luminoso.
A livello quantitativo, vi sono circa 200.000 progetti LEED in tutto il mondo, e quindi circa 1,5 miliardi di metri quadri di edifici certificati. In Italia, dal 2000 al 2012 sono stati certificati e registrati LEED 2 milioni di metri quadri di edifici. Si parla di edifici nuovi e anche esistenti.
Con la certificazione, il prodotto finale, comprensivo di involucri e di impianti, ha delle caratteristiche di qualità certificata, che è quella delle direttive europee, dalla n. 27 del 2012 sull’efficienza energetica nell’edilizia alla n. 31 del 2010 sulla prestazione energetica nell’edilizia e così via.
GBC Italia suggerisce di attivare vari organi quali gruppi parlamentari, interministeriali, Commissioni parlamentari, Conferenza Stato-Regioni, proprio perché il tema è estremamente complicato e investe una serie di attori specifici, compresi tutti quelli della filiera delle costruzioni.
GBC ritiene che l’attivazione di 100 ecoquartieri per 100 città, edilizia scolastica e pubblica come casi esemplari, potrebbe essere il volano per far ripartire l’economia e i fondi europei potrebbero aiutare in questo perché, comunque, l’intera programmazione europea è volta in questa direzione. Il tema fondamentale è quello di utilizzare in maniera più corretta le risorse economiche che l’Unione europea metterà a disposizione, ma che partenariati pubblico-privati potrebbero aiutare a portare avanti.
GBC Italia ha istituito al proprio interno un comitato tecnico specifico con l’obiettivo di elaborare delle linee guida per una gestione efficiente di edifici dal punto di vista energetico con strumenti operativi riconosciuti a livello internazionale, con format standardizzati e database di archiviazione e analisi dei dati, consumo reale degli edifici validati a livello internazionale.
Sono ritenute importanti una linea guida specifica sul green procurement, e il tema della qualità ambientale interna come centrale all’interno del settore delle costruzioni. GBC ritiene che utilizzare strumenti di questo genere aiuta a essere operativi subito e in linea con quello che le direttive europee chiedono, cioè certificare con qualità, monitorare i risultati e riportare in maniera corretta i dati.
Confindustria.
Secondo Confindustria, per lo sviluppo di una green economy capace di incrementare la tutela delle risorse ambientali, la competitività delle imprese e i livelli occupazionali, occorre agire su tre fattori:
1. porre l’industria al centro delle politiche di sviluppo, al fine di forzare la capacità del sistema economico italiano di incrementare i processi di innovazione: le imprese della green economy sono infatti fortemente integrate con gli altri settori industriali (la distinzione tra green e brown economy è, secondo Confindustria, un’astrazione): green economy non vuol dire abbandonare la tradizionale vocazione manifatturiera, ma migliorarne la competitività ambientale e favorire lo sviluppo di nuovi prodotti. Insomma occorre evitare che il raggiungimento di obiettivi ambientali alimenti delocalizzazioni produttive, poiché un impoverimento della base industriale si tradurrebbe in minori prospettive di crescita anche per i settori della green economy fortemente integrati. Occorrono quindi politiche industriali in grado di orientare le risorse pubbliche verso le imprese più impegnate sulle nuove frontiere tecnologiche;
2. puntare sull’efficiente utilizzo delle risorse, in particolare quelle energetiche, che rappresentano un fattore decisivo per la tutela dell’ambiente e la competitività delle imprese italiane; in proposito Confindustria sottolinea che la strutturale dipendenza italiana dalle fonti fossili raggiungerà il 95 per cento nel 2030, per cui essere efficienti sul piano energetico è una questione di sopravvivenza. Si auspica quindi, per il settore-chiave manifatturiero, una riduzione del 30 per cento delle componenti parafiscali della bolletta energetica, per restringere il differenziale di costo con i principali Paesi.
È inoltre cruciale puntare sulle tecnologie per l’efficienza energetica, poiché esse giocheranno un ruolo prioritario (addirittura più delle rinnovabili) al raggiungimento dei target nazionali del pacchetto clima-energia dell’UE. Secondo Confindustria in quest’ambito bisogna puntare su smart building (riqualificazione energetica in edilizia, attraverso automazione, sistemi di riscaldamento innovativi ed elettrodomestici efficienti), urban network (mobilità elettrica, smartlighting, sistemi per l’integrazione delle fonti energetiche rinnovabili, smartgrid) e industrial cluster (motori elettrici ad alta efficienza, inverter di rifasamento, gruppi statici di continuità, tecnologie per teleriscaldamento, teleraffreddamento e cogenerazione ad alto rendimento) e per farlo occorre un quadro di regole stabile nel tempo. In proposito Confindustria auspica: la proroga al 2020 dell’attuale quadro di misure fiscali; il rafforzamento degli obiettivi incentivanti attraverso meccanismi di efficienza energetica, con l’allargamento a nuovi settori di applicazione; la revisione del sistema tariffario per promuovere il vettore elettrico.
Quanto proposto, secondo le simulazioni svolte, consentirebbe nel solo periodo 2014-2020, di ottenere una crescita della produzione industriale italiana di oltre 65 miliardi di euro in media annui; un incremento del numero di occupati di circa 500 mila unità; un risparmio del 10 per cento della bolletta energetica nazionale e di circa 270 milioni di euro in termini di CO2 evitata);
3. stimolare investimenti produttivi connessi alla tecnologia per la sostenibilità e alla riqualificazione, recupero e manutenzione dell’esistente, soprattutto per quello che riguarda le risorse ambientali esauribili e non rinnovabili.
Sotto questo punto di vista, occorre facilitare i processi di bonifica e reindustrializzazione dei siti contaminati per assicurare sia la tutela dell’ambiente e della salute sia il recupero del territorio e il rilancio delle attività produttive. Per raggiungere tali obiettivi, è necessario, secondo Confindustria, agire sul fronte della semplificazione e prevedere efficaci meccanismi di attrazione di investimenti produttivi, anche attraverso l’utilizzo della leva fiscale. Il potenziale dell’Italia in questo settore è notevole, se si pensa alla possibilità di convertire siti non competitivi in bioraffinerie per la produzione di bioplastiche o biolubrificanti.
Bisogna inoltre puntare, secondo Confindustria, sull’utilizzo dei materiali derivanti da lavorazioni industriali come sottoprodotti, anziché avviarli nella gestione dei rifiuti.
Bisognerebbe anche puntare su accordi di filiera integrata per il mercato nazionale e, soprattutto, internazionale, poiché la domanda dei Paesi emergenti di tecnologie green si basa su progetti di ampie dimensioni, strutturati e integrati, nei quali è difficile che la singola impresa possa presentarsi da sola.
Secondo Confindustria occorre poi definire una politica che promuova l’attività di ricerca e sviluppo per assicurare un alto standard di innovazione, anche attraverso la promozione di partenariati tra industrie, istituzioni e centri di ricerca universitari, oltre a favorire il finanziamento di progetti di sviluppo delle filiere industriali particolarmente interessanti. Viene riconosciuto come valido strumento l’istituzione, da parte della legge di stabilità, di una risksharingfacility per il finanziamento dei grandi progetti di innovazione e ricerca, per supplire al fatto che le banche non sono particolarmente propense a finanziare tali progetti che, per loro natura, sono ad alto rischio e a redditività molto differita nel tempo.
Confindustria auspica inoltre una semplificazione del sistema delle autorizzazioni per lo sviluppo degli impianti e delle infrastrutture, accompagnata da piani di razionalizzazione degli interventi sul territorio.
Poiché la maggior parte delle questioni enunciate richiedono consistenti investimenti pubblici, Confindustria ritiene necessario, a partire dal livello europeo, allentare i vincoli di spesa che bloccano molti investimenti ad alto potenziale attraverso opportune deroghe ai patti di stabilità per gli investimenti in campo energetico e ambientale.
Rete Imprese Italia.
Secondo Rete Imprese Italia la green economy, ovvero la parte economica dello sviluppo sostenibile, rappresenta il modello su cui bisogna orientare l’economia per poter uscire dalla crisi. In questi anni di crisi, infatti, i settori considerati più promettenti e più green hanno retto l’economia del Paese.
Al primo posto ci sono l’efficienza energetica e le fonti rinnovabili, che hanno prodotto in Italia oltre 500.000 impianti, ma hanno mantenuto anche l’occupazione in oltre 100.000 piccole e micro imprese. Non c’è stato dunque un beneficio solo sul piano della produzione di energia da fonti alternative e quindi della sottrazione del nostro Paese dall’eccessiva dipendenza dai mercati dei prodotti fossili, ma c’è stato anche un apporto di ricchezza e di occupazione senza precedenti nel nostro Paese.
Altrettanto si può dire in edilizia, dove in un periodo di profonda crisi le 650.000 piccole e medie imprese dell’edilizia hanno visto negli interventi di efficienza e di riqualificazione energetica e di ristrutturazione degli immobili un polo di sviluppo in controtendenza con la crisi.
Rete Imprese Italia cita poi altri esempi relativi alle manifatture a cominciare dalle attività legate al riciclo dei rifiuti e al recupero dei materiali. Solo nel settore del recupero e del riciclo delle materie plastiche, si registrano oltre 300 piccole e medie imprese, che sommano oltre 2.000 dipendenti e producono già 700.000 tonnellate di prodotti riciclati, cioè 700.000 tonnellate di prodotti in meno che dovrebbero essere importati, evitando quindi un’importazione, che fino a poco tempo fa aveva ad oggetto prodotti riciclati provenienti dai Paesi asiatici non connotati né da garanzie igieniche né da atossicità degli stessi prodotti.
Rete Imprese Italia ritiene che questo cambiamento si può ottenere solo se accompagnato da misure di contesto che rientrano nell’azione del Governo e del Parlamento che partono dall’esigenza di garantire un ambito di legalità, che è la prima condizione per sviluppare le imprese nel Paese, per sviluppare l’economia a livello locale e per stimolare anche possibili investimenti esteri nel nostro Paese. Occorre poi riformare il sistema fiscale italiano in modo che, spostando il peso fiscale dal lavoro al patrimonio e al consumo dei prodotti e dei materiali più inquinanti, possa riequilibrare in favore delle attività della green economy la competitività delle imprese, ridistribuendo i carichi fiscali, applicando il principio europeo «chi inquina paga» e spostando il carico fiscale per esempio anche sul consumo del suolo e delle risorse del sottosuolo, favorendo, infine, la produzione da materiali riciclati. Occorre poi invertire la tendenza che da oltre un decennio è volta a utilizzare la bolletta elettrica come uno strumento improprio di prelievo, per il sostegno di politiche di sviluppo industriale quali sicuramente le fonti rinnovabili, spostando anche queste voci sulla fiscalità generale. Servono inoltre investimenti per le infrastrutture materiali e per il recupero e la salvaguardia del territorio. Rete Imprese Italia reputa poi necessario rilanciare una politica di generazione diffusa di energia con un sistema di incentivazione che premi l’autoproduzione soprattutto per i piccoli impianti e per le piccole imprese sia nel fotovoltaico sia nelle altre forme di produzione di energia (cogenerazione e trigenerazione). Per quanto concerne i rifiuti, occorrerebbe favorire l’utilizzo dei rifiuti sul territorio nazionale e promuovere misure che determinino l’attuazione del principio comunitario di prossimità per le attività di gestione degli stessi rifiuti.
Assorinnovabili.
Assorinnovabili sottolinea come i dati sui disastri naturali mostrino una forte correlazione con l’aumento delle emissioni di CO2 e che quindi, agendo sui fattori di emissione, è possibile intervenire pesantemente per cambiare la situazione. Ma per farlo occorre rimuovere una serie di ostacoli allo sviluppo delle fonti rinnovabili, peraltro in contrasto con le linee guida europee, quali: l’estensione della Tobintax alle aziende che fatturano più di 3 milioni di euro; la mancanza, ormai quinquennale, di ogni regolamentazione sull’autoproduzione, sulle SEU e sulle reti private; la mancanza di qualsiasi incentivo e di qualsiasi idea sulle modalità per inserire l’accumulo elettrico negli impianti a fonti rinnovabili, per ridurre l’impatto con la rete; l’imposizione di oneri di sbilanciamento non discussi dal punto di vista tecnico per misurarne davvero i valori; osserva altresì che sono stati tolti quei vantaggi che venivano dati a chi riusciva a ridurre le perdite della rete considerato che il vantaggio dato dalla generazione distribuita è stato ridotto drasticamente ed è praticamente sparito.
Inoltre Assorinnovabili ricorda come con il «Decreto del Fare» sia stato operato un taglio retroattivo volontario sugli incentivi, siano stati eliminati i prezzi minimi garantiti ed sia stata tolta la cartolarizzazione di una parte della componente A3.
Questi ostacoli sembrano il sintomo di una concezione secondo cui il prezzo dell’energia è dovuto prevalentemente all’incentivazione delle rinnovabili. Assorinnovabili ritiene che ciò non sia vero storicamente. Si tratta di un dato confermato dal fatto che dal 2002 ad oggi la componente energia è aumentata di 160 euro contro un aumento di 60 euro della quota relativa alle rinnovabili; il fatto che le PMI in Italia pagano di più (rispetto alla Germania) non è dovuto alle rinnovabili, ma ad una struttura del mercato all’ingrosso completamente diversa.
Assorinnovabili ritiene essenziale un adeguamento agli obiettivi europei per il 2030 e, per sviluppare le fonti rinnovabili, ritiene necessario sviluppare la generazione distribuita e arrivare almeno a un megawatt per lo scambio in loco.
ANCE.
I temi affrontati nel corso dell’audizione hanno riguardato il settore delle costruzioni in quanto, se è vero che la green economy riguarda tutti i settori dell’economia, gli ambiti di intervento principali per l’edilizia sono quelli riferiti all’energia e all’uso dei materiali. Fra i famosi sei lead market individuati ormai qualche anno fa in ambito europeo, uno era proprio l’edilizia sostenibile, con pesanti ricadute anche in senso occupazionale.
Per quanto riguarda le potenzialità per il settore delle costruzioni nell’ambito della green economy, ANCE ha individuato tre macrosettori: quello delle nuove costruzioni, quello del patrimonio edilizio esistente e quello della città in senso lato.
Per le nuove costruzioni, per quanto riguarda l’aspetto energia è stata richiamata la direttiva che prevede edifici a energia quasi zero dal 2020, di cui si attendono i decreti attuativi, che stabiliranno le regole tecniche per definire il livello di «energia quasi zero» e quindi dare questo riconoscimento ai nuovi edifici. Nel contempo, è ritenuto necessario il tema dei materiali, in quanto occorre cercare di limitare l’uso di materie prime naturali, quindi non solo quelle energetiche, ma anche i materiali da costruzione, e in questo senso bisognerebbe cercare di spingere politiche incentivanti l’uso di materiali derivanti da riciclo. ANCE fa presente che questo si applica anche nel Green public procurement, gli appalti verdi pubblici e che già esiste una previsione del 30 per cento di materia riciclata negli appalti pubblici di qualsiasi settore, ma nella parte edilizia tale profilo ha caratteristiche diverse e che occorrerebbero normative specifiche, considerando che non sempre è possibile utilizzare materiale da riciclo, in quanto non si può importare da grandi distanze e il bacino è a livello provinciale.
Sul patrimonio edilizio esistente ANCE evidenzia gli incentivi fiscali del 55 e oggi 65 per cento per la parte energetica, misura che va consolidata e rafforzata nell’efficacia, ritarandola in maniera da aumentare il rapporto costi/benefici rispetto all’investimento, quindi in termini di risultati ottenuti come risparmio energetico, visto che in questi anni alcune forme incentivate da tale misura non hanno dato risultati di altissimo livello in termini energetici. È sicuramente l’ambito maggiore di intervento considerato che la nuova edilizia è comunque una frazione molto marginale rispetto al patrimonio esistente, che consuma mediamente tre o quattro volte più degli edifici che oggi costruiamo. Andrebbero quindi studiate, come peraltro prevede la direttiva, forme per incrementare il numero di edifici a energia quasi zero, quindi andrebbe definito un pacchetto di norme ad hoc per un edificio esistente a energia quasi zero che ovviamente non potrà quasi mai avere la prestazione di un edificio nuovo.
Il terzo ambito in cui si può intervenire è quello della città in senso lato, visto che ormai si parla sempre di smart city, termine che racchiude al proprio interno la parte energetica, che va dagli edifici ai trasporti, ai sistemi di comunicazione. Andrebbe posta molta attenzione su come favorire e sviluppare il mercato della sostituzione edilizia, perché ci sono singoli edifici e a volte interi quartieri che ormai hanno perso la loro funzionalità: sono energeticamente scadenti, non sono sicuri da un punto di vista sismico, presentano barriere architettoniche difficilmente eliminabili, che quindi ormai non assolvono più alla funzione dell’abitare per come oggi la si intende. Occorre andare quindi sull’intervento a più larga scala, e qui non cercare di favorire questi meccanismi di sostituzione urbana anche con interventi nelle ex aree industriali, che ormai in molte città sono zone centrali, interne alla città e che bisogna cercare di recuperare. Il tema del recupero di queste aree e delle bonifiche conseguenti va visto nell’ottica di rivedere anche le normative esistenti da applicare, di renderle chiare e univoche, non dando adito a interpretazioni strane o scorrette, in modo tale che gli operatori possano preventivare correttamente i costi di questi interventi e poi realizzarli. Servirebbe quindi una nuova legge quadro sul governo del territorio da affiancare a una politica di riqualificazione urbana con la previsione di qualche forma premiale incentivante anche dal punto di vista fiscale. ANCE enuncia la necessità di interventi sul patrimonio scolastico in quanto ci sono edifici scolastici di più di cento anni di vita che necessitano di un radicale intervento. ANCE conclude sottolineando l’importanza di preventivare opportunamente i nuovi fondi europei 2014-2020, che sono in fase di definizione, così da dare possibilità alle Regioni di utilizzarle per tali finalità.
Alleanza delle cooperative italiane.
Alleanza delle cooperative italiane sottolinea di aver posto il tema della green economy (intesa come un modo di ripensare in maniera più efficiente e sostenibile il nostro sistema produttivo) tra i settori prioritari di promozione di nuove imprese cooperative, costituendo per il movimento cooperativo la strada privilegiata per creare occupazione e contribuire a una ripresa della crescita. In particolare l’Alleanza sta puntando (p.es. nell’agricoltura tradizionale, aggiungendo la componente energetica), in particolar modo, su un uso del territorio che sia non solo sostenibile, ma anche innovativo. In questo senso l’Alleanza apprezza la direzione intrapresa con il disegno di legge sul consumo di suolo.
Secondo l’Alleanza occorre fare uno sforzo grande nel settore dell’efficienza energetica, attraverso la razionalizzazione degli incentivi che esistono, la loro stabilizzazione, se possibile, nonché la loro riduzione/semplificazione nella direzione di un incentivo unico, misurabile ed esaustivo di tutte le complesse attività che riguardano l’efficienza energetica, per esempio utilizzando l’APE come un indicatore in entrata e in uscita a seguito di interventi del punto di efficienza raggiunto sia nell’edilizia privata sia nella stessa pubblica amministrazione. Quest’ultima, secondo l’Alleanza, potrebbe dare un grosso contributo, innescando un processo significativo da un punto di vista quantitativo, oltre che qualitativo, al proprio interno.
Per quanto riguarda il capitolo dei rifiuti, l’Alleanza ritiene che la piattaforma cooperativa possa essere uno strumento utilizzabile nel Paese per invertire la ratio con cui si è gestito finora il tema dei rifiuti, non solo cioè come servizio pubblico, ma anche per alimentare una vera e propria industria del riciclo e del recupero.
Occorre quindi sviluppare la piattaforma collaborativa che il movimento cooperativo offre, perché il modello cooperativo potrebbe consentire di incrociare il rinnovamento nei settori dell’ambiente e dell’energia e favorire una ripresa economica sostenibile.
L’Alleanza suggerisce, infine, di utilizzare il servizio civile giovanile anche nell’ambito dei temi dell’efficienza energetica: si potrebbero formare cinquemila giovani all’anno con una spesa di qualche decina di milioni di euro, che creerebbero un volano successivo nel mercato dell’efficienza energetica.
Confagricoltura (Confederazione generale agricoltura italiana), Coldiretti (Confederazione nazionale coltivatori diretti), CIA (Confederazione Italiana Agricoltori) e Copagri (Coordinamento organizzazioni professionali agricole italiane).
Confagricoltura concentra la propria analisi su quattro punti. Innanzitutto la garanzia della sicurezza alimentare e l’accorciamento della filiera, al fine di garantire più reddito all’agricoltore e permettendogli di rimanere sul territorio con prodotti validi qualitativamente.
Il secondo aspetto è rappresentato dalle filiere di qualità DOP, IGP e, soprattutto, il biologico, che rappresenta una delle filiere più importanti della green economy che deve essere sviluppata.
Un terzo tema cruciale è quello della gestione delle risorse: dall’utilizzo dell’acqua in agricoltura, uno degli argomenti più importanti per la produttività, al consumo del suolo e alla perdita di sostanza organica e, conseguentemente, alla necessità di nuove frontiere sui fertilizzanti moderni. In proposito Confagricoltura ricorda l’esempio della filiera del biogas, dove la produzione di digestato sta cominciando a creare filiere agro-industriali estremamente importanti proprio per sostituire i fertilizzanti. Nell’ambito della gestione delle risorse, Confagricoltura ricorda che si sta inoltre lavorando molto sulle aree naturali, sui servizi eco sistemici, settori in cui si sta creando occupazione.
Il quarto ed ultimo aspetto sottolineato da Confagricoltura è la sostituzione delle risorse fossili. Dopo lo sviluppo delle rinnovabili, si stanno aprendo nuove frontiere sull’efficienza energetica, da ultimo sul biometano (per sostituire il gasolio agricolo, ancora molto utilizzato), ma soprattutto con la chimica verde.
Rilevante poi la problematica delle aree marginali e del ruolo dell’agricoltura e della gestione delle foreste (che secondo Confagricoltura sono in buona parte mal gestite o abbandonate) nell’assorbimento del carbonio, che può funzionare da volano per offrire nuove opportunità alle aziende agricole.
Secondo la CIA il ruolo per l’ambiente del settore agricolo non è limitato all’agricoltura sostenibile, che è solo una delle potenzialità della green economy in agricoltura: si pensi alla manutenzione del territorio (utile sia per la prevenzione contro il dissesto idrogeologico, che come recupero rispetto alla devastazione ecologica che avviene dopo un dissesto) o alla riqualificazione fluviale. Serve quindi riconoscere pari dignità per l’agricoltura rispetto alle aree protette: in agricoltura è l’uomo che deve agire per la biodiversità agraria e non si può lasciare tutto questo al libero arbitrio, occorre una regolamentazione.
Coldiretti sottolinea come in questo momento la sostenibilità sia considerata dagli agricoltori, ma anche da tutti i consumatori, che accettano di contribuire a questo sostentamento con le risorse che la PAC riversa sui territori, non più come un limite, ma come un’opportunità, un valore, da declinare in maniera assolutamente positiva.
Coldiretti ritorna sulla mancata gestione delle foreste ed evidenzia altresì le enormi possibilità di ottenere energia anche prelevando materiali dai boschi, ma soprattutto rendendo anche i residui di produzione delle opportunità. Viene inoltre criticata l’espansione del fotovoltaico a terra, che ha sottratto terreni fertili.
Importante per Coldiretti è, inoltre, far sì che gli agricoltori abbiano la certezza del consumo dell’acqua, ma con l’impegno, nello stesso tempo, di ridurre tale consumo.
Coldiretti auspica inoltre, al fine di consentire al sistema di produrre eccellenze, una regolazione anche attraverso l’applicazione dei decreti attuativi della legge sull’etichettatura (a cui è connesso il tema degli OGM), nonché l’adozione a livello nazionale, sulla falsariga di quanto operato in Trentino, di principi per il censimento delle aree agricole e di quelle dismesse o inutilizzate, nonché dell’invarianza del suolo agricolo.
Copagri parte dal riconoscimento dell’agricoltura come avanguardia della nuova economia moderna. L’agricoltura non solo non è residuale, ma è in crescita in termini qualitativi e di valore umano, così come crescono le facoltà di agraria e i nuovi imprenditori agricoli giovani.
Nella nuova green economy occorre un’agricoltura tecnologicamente avanzata e ambientalmente sostenibile in grado di garantire prodotti salubri e di qualità.
Ma la green economy si fa soltanto all’interno di un grande quadro di scelte politiche e di investimenti finanziari. Occorre insomma una forte governance che indirizzi e incoraggi questo percorso, per esempio risolvendo il problema dell’accesso al credito, perché non è possibile fare green economy, cioè cambiamento tecnologico e modernità, senza credito.
Per Copagri occorre quindi deburocratizzare, semplificare, specialmente per il mondo della piccola impresa agricola italiana. Un caso esemplare è quello della gestione degli scarti in agricoltura, del loro riutilizzo sia a fini energetici sia in altro modo: il riciclo degli scarti e la produzione di biogas vengono sostenuti da Copagri come priorità energetica (rispetto ad esempio al fotovoltaico a terra che sottrae terreni) del settore agricolo.
Consorzio Remedia.
Secondo Remedia il tema dei rifiuti elettrici ed elettronici (RAEE) può rientrare tra le attività nell’ambito dello sviluppo di una economia sostenibile e anche della creazione di posti di lavoro in un settore con grosse potenzialità. Dall’entrata in vigore del decreto legislativo 151/2005 il settore è infatti in continua espansione sia come numero di imprese e di addetti che in termini di sviluppo tecnologico e, anche alla luce dei nuovi obiettivi imposti dall’UE, si attende un ulteriore e crescente sviluppo.
Un corretto riciclo dei RAEE consentirebbe inoltre di ottenere buoni risultati da un punto di vista di recupero di materie prime e, quindi, di ridurre le emissioni di gas serra e di risparmiare energia rispetto allo scenario in cui le stesse materie prime vengono prelevate dalla miniera (tale risparmio è stimabile in 1,5 milioni di tonnellate equivalenti di CO2 e 500 mila gigajoule di energia).
Il settore dei RAEE rappresenta inoltre un’interessante applicazione di «economia circolare» ed uno strumento verso l’obiettivo «rifiuti zero».
Federambiente e Fise Assoambiente.
Fise Assoambiente parte dalla considerazione che la green economy rappresenta un’occasione per migliorare la gestione dei rifiuti e, soprattutto, per trovare vie d’uscita alle situazioni emergenziali.
Riprendendo le criticità sollevate dall’OCSE, Fise Assoambiente lamenta l’assenza di un Piano nazionale per la gestione dei rifiuti efficace e la mancanza, nel sistema autorizzativo, di un quadro normativo certo, stabile ed omogeneo: vi sono autorizzazioni completamente diverse fra loro; alcuni impianti sono classificati come smaltimento, altri come impianti di recupero.
Dal punto di vista delle risorse Fise Assoambiente sottolinea, quale necessità fondamentale, che quelle derivanti dal mancato raggiungimento degli obblighi della raccolta differenziata dei comuni vengano destinate al recupero e al riciclo, così come le risorse derivanti dalla tassa sulle discariche andrebbero destinate a operazioni di incentivo per la raccolta differenziata e per gli impianti di recupero e di riciclo. Servirebbe inoltre agevolare l’accesso al credito per facilitare gli investimenti negli impianti di recupero/riciclo necessari, nonché nelle bonifiche e nello smaltimento.
Fise Assoambiente critica il disordine creato dall’introduzione di Tares, IUC e altro, che hanno danneggiato il settore, che invece avrebbe bisogno di chiarezza normativa, di semplificazione e di stabilità.
Secondo Federambiente i rifiuti sono risorse e non un problema. Serve quindi una politica di sostegno al riuso dei beni recuperabili e rifunzionalizzabili, anche attraverso un intervento sulla definizione di rifiuto, che agevoli e permetta di sviluppare ulteriormente le iniziative per il riuso e la riparazione e rifunzionalizzazione di oggetti che recentemente sono sorte.
Un secondo aspetto sottolineato da Federambiente riguarda la correzione delle distorsioni commerciali nella distribuzione di generi alimentari e nel consumo degli alimenti e del cibo, che determinano oggi enormi sprechi.
Occorre poi declinare e dettagliare il Piano nazionale di prevenzione dei rifiuti, recentemente approvato dal Ministero dell’ambiente, al fine di indicare le azioni da incoraggiare e quindi al fine di delineare le correzioni legislative da apportare.
Un tema molto importante nell’ambito della prevenzione è sicuramente quello delle acque minerali imbottigliate, che andrebbe regolamentato per limitare la crescita esponenziale e incontrollata che ha avuto in questi anni: in Italia ogni anno vengono usate 9 miliardi di bottiglie di plastica e solo il 50 per cento viene effettivamente riciclato, mentre la restante parte finisce negli inceneritori. Secondo Federambiente non è possibile che il quinto Paese al mondo per quantità, qualità e salubrità delle acque potabili, che possono essere acquistate dal cittadino a tariffe convenienti, nella realtà consumi 9 miliardi di litri all’anno di acqua minerale, divenendo così leader mondiale del consumo delle acque minerali.
Iniziative per scoraggiare questa tendenza potrebbero essere la cauzione sul vuoto a rendere che, almeno nell’imbottigliamento del vetro, è possibile oppure il divieto nelle scuole, negli ospedali e nelle caserme del consumo di acque minerali imbottigliate nella plastica: ciò sarebbe il segno di un’iniziativa che tende a scoraggiare quel tipo di consumi.
Federambiente evidenzia poi un problema legato al trattamento delle plastiche eterogenee rivenienti dalla raccolta differenziata che, non essendo gestibili, vengono destinate in grandi quantità (circa 600 mila tonnellate all’anno) all’incenerimento per recupero di energia. Servirebbe quindi incentivare la ricerca sull’uso delle plastiche eterogenee.
Un discorso analogo secondo Federambiente può essere fatto per gli oli combustibili, di recupero, quelli di uso sia domestico sia industriale: anche in questo caso servirebbe una politica di sostegno.
Analogamente andrebbe incentivata la raccolta differenziata delle «frazioni organiche» e la successiva produzione di compost, anche se «fuori specifica» (cioè non riutilizzabile come concime ma solo, ad es., per riempimenti), perché è una attività che comunque sequestra CO2 dall’atmosfera.
Occorre poi, secondo Federambiente, sviluppare l’impiantisca, soprattutto al sud, perché attualmente le regioni sono costrette a portare negli impianti fuori regione, con aggravi di costo, le frazioni organiche raccolte separatamente: si corre il rischio che quelle regioni smettano di fare la raccolta differenziata per i costi insostenibili. Un altro punto di criticità riguarda la chiusura del ciclo dei rifiuti nelle grandi città.
Federambiente sottolinea infine due temi. Uno è la responsabilità estesa del produttore, secondo la quale chi produce rifiuti ne è responsabile fino al momento in cui quel rifiuto torna a essere un bene. Ebbene in questa prospettiva, secondo Federambiente, il ruolo del Conai non deve essere solo quello di un soggetto che si occupa di imballaggi, ma di materie recuperabili e riciclabili. Il contributo ambientale Conai deve quindi essere legato non soltanto al recupero degli imballaggi. Serve una politica per il recupero delle materie. Il secondo tema è l’esigenza di correggere l’attuale squilibrio nel sistema di finanziamento del circuito della valorizzazione dei rifiuti, che costa moltissimo per i cittadini e non molto per l’industria che produce imballaggi riciclati.
Finco (Federazione industrie prodotti impianti servizi ed opere specialistiche per le costruzioni).
Finco ha presentato alle Commissioni alcune proposte basate sull’assunto che la green economy rappresenta una possibile e concreta via di uscita dalla crisi in cui versa l’economia italiana; un concetto ad ampio spettro che supera l’ambito limitato della bioedilizia.
Alla luce di questa premessa FINCO ha suggerito alcune misure settoriali, volte al rilancio economico del Paese che puntano sulla qualificazione degli operatori, sull’innovazione tecnologica e sulle opportunità fornite da un’economia sostenibile.
La prima proposta di FINCO riguarda la stabilizzazione del bonus fiscale per la riqualificazione energetica degli edifici al 2020. Al termine di tale periodo si potrebbe distinguere la detrazione a seconda del periodo di ammortamento scelto dal contribuente: 50 per cento per 3 anni, 55 per cento per 5 anni, 60 per cento per 10 anni, garantendo comunque il 65 per cento di detrazione laddove la riqualificazione energetica sia associata a quella sismica. In alternativa, si potrebbe ipotizzare una progressiva diminuzione della percentuale di sgravio fiscale passando dall’attuale 65 per cento al 60 per cento nel 2016, al 55 per cento nel 2018, al 50 per cento nel 2020 ad a regime. La misura in questione contribuirebbe, oltre che all’efficientamento e messa in sicurezza del costruito nazionale (residenziale e terziario, inclusi gli immobili strumentali), all’emersione del lavoro nero, all’abbattimento delle emissioni di CO2, nonché a corroborare una parte vitale dell’industria nazionale e della connessa occupazione. Avrebbe inoltre positive ricadute sull’incremento delle entrate dello Stato, a copertura della stessa misura, attraverso l’IVA recuperata, IRAP, IRPEF ed IRES aumentate, nonché sull’indotto generato, a prescindere da un evidente impatto anticongiunturale. Da valutare, nel breve periodo, eventuali modalità di implementazione della misura con meccanismi percentuali premiali, ma non obbligatori, rispetto all’intervento sul pieno edificio, oltre che con l’allargamento ad interventi ulteriori come l’installazione di schermature solari, la copertura e l’isolamento con tetti e/o pareti erbose, tuttora esclusi da ogni tipo di incentivo.
La seconda proposta di FINCO riguarda l’ecoprestito finalizzato alla possibilità di espandere il margine di efficientamento energetico considerato che attualmente solo il 3-4 per cento degli edifici italiani appartiene a classi energetiche superiori alla C. Il finanziamento, rimborsato in 10 anni, sarebbe sostenuto dagli istituti bancari cui spetterebbe di portare in detrazione la perdita derivante dal tasso «0» erogato. Auspicabile un ruolo della Cassa Depositi e Prestiti a copertura di un Fondo di Garanzia per rassicurare gli istituti bancari in questa operazione.
Gli interventi ammissibili, secondo la proposta dell’ecoprestito, sarebbero i seguenti:
incremento dell’efficienza energetica delle coperture;
incremento dell’efficienza energetica delle pavimentazioni;
incremento dell’efficienza energetica dei muri perimetrali;
incremento dell’efficienza energetica delle finestre e infissi anche con installazione di schermature solari;
incremento dell’efficienza energetica delle chiusure esterne;
installazione di apparecchiature e sistemi per riscaldamento e produzione di energia elettrica ed acqua calda, utilizzanti fonti rinnovabili o assimilate;
interventi di bonifica ambientale tramite la sostituzione delle coperture di cemento-amianto.
Questi interventi potrebbero generare, oltre che un incremento delle attività imprenditoriali connesse, anche un aumento occupazionale con un chiaro ed immediato effetto anticiclico, utile per favorire la ripresa economica.
Un’ulteriore misura sollecitata da Finco riguarda il fronte delle energie rinnovabili e dei sistemi di distribuzione del calore centralizzato nel teleriscaldamento. In particolare, sarebbe opportuno valorizzare le fonti rinnovabili termiche (FER Termiche: Biomasse, Cogenerazione, Geotermia e connessa distribuzione tramite Teleriscaldamento) che, pur avendo un enorme potenziale, nel panorama delle rinnovabili sono state effettivamente meno sostenute negli anni (900 milioni/anno per Conto Termico a fronte dei 12,5 miliardi/anno per le FER elettriche).
3.2. Associazioni ambientaliste e sindacati.
CGIL e UGL.
La CGIL ha affermato, innanzitutto, che tutti gli incentivi rispetto alle infrastrutture e al rilancio industriale devono essere mirati e indirizzati verso la green economy, verso l’innovazione diretta alla difesa e soprattutto al mantenimento dell’ambiente in condizioni che garantiscano il futuro delle nuove generazioni.
La green economy coinvolge la gestione delle acque, la difesa e l’indirizzo di impegni programmatici di investimenti, laddove il referendum del 2011 ha fornito indicazioni ben precise sulle quali ci sono enormi ritardi. È importante indirizzare le risorse esistenti
Inoltre, la legge n. 394 del 1991 non ha avuto piena applicazione, ma viene rimessa in discussione sulla questione della biodiversità.
La CGIL spinge molto sulla questione relativa alla riduzione dei contributi che ancor più di ieri vengono erogati per le risorse fossili al fine di garantire un ambiente più sano, e per un impegno continuo sulle bonifiche dei siti inquinati, perché non è accettabile che dalla legge n. 257 del 1992 ad oggi le bonifiche procedono con rilevanti ritardi e non ci sono interventi specifici che possano accelerarne la realizzazione.
Per quanto riguarda l’uso delle risorse fossili, la CGIL è favorevole a una transizione seria, indirizzando gli incentivi soprattutto verso le rinnovabili e la dismissione delle centrali vecchie e inquinanti del Paese.
Secondo la CGIL, la proposta di legge sul contenimento del consumo di suolo non prosegue l’iter perché non si riesce a comprendere come si vogliano realizzare gli interventi sul territorio. Sarebbe necessario un indirizzo rispetto alla ristrutturazione e alla riqualificazione urbana. C’è, infine, il problema dei trasporti.
In conclusione, dunque, CGIL considera necessario fare uno sforzo maggiore per la tutela dell’ambiente per uscire dalla crisi creando occupazione, perché un intervento di bonifica di un sito inquinato o di mitigazione dei rischi rispetto alla manutenzione del territorio ha una ricaduta immediata sull’occupazione.
L’UGL ha focalizzato l’attenzione sulla necessità di sviluppare un dibattito per individuare percorsi concreti, finalizzati alla crescita verde secondo il concetto OCSE, effettiva, socialmente equa, incisiva nel combattere la povertà globale, ma anche quella silente, sempre più emergente nel vecchio continente e nella nostra Italia.
Per intraprendere nuovi cammini, da un lato, serve adeguata conoscenza per liberare la creatività e supportare idee e tecnologie, installando un clima di fiducia che faciliti l’intervento dei regolatori e degli investitori: regole chiare, tempi certi, incentivi, contribuzioni, che spingano a innescare cicli virtuosi, dall’innovazione all’occupazione di qualità, quindi alla produttività, ma anche stabilità, equilibro ecosistemico. Naturalmente il sistema funziona se ognuno esercita pienamente il proprio ruolo, partendo dal singolo cittadino fino ad arrivare a livelli istituzionali, passando per i corpi intermedi come il sindacato, gli organismi di rappresentanza del mondo datoriale, il terzo settore, in una logica di pubblico-privato.
Le proposte dell’UGL sono in sintesi le seguenti:
adozione di nuovi modelli economici e sociali per educare allo sviluppo sostenibile, anche con il coinvolgimento della scuola;
rafforzamento della governance della politica energetica comunitaria;
maggiore attenzione alle particolari categorie di utenti finali, come imprese di settori strategici e famiglie, a iniziare da quelle inserite nelle fasce deboli;
avvio e potenziamento di programmi formativi, per favorire la creazione di nuova, ulteriore occupazione e la riqualificazione professionale del personale già occupato;
ridefinizione della rete di distribuzione dell’energia, propedeutica a un passaggio a un sistema di una generazione diffusa;
interventi normativi e regolamentari per ridurre gli ostacoli burocratici e per sostenere lo sviluppo delle energie rinnovabili;
incentivazione al recupero di efficienza, risparmio energetico in tutti i settori;
miglioramento del mix energetico;
coinvolgimento strategico del territorio;
avvio di programmi di informazione e sensibilizzazione dei cittadini;
sostegno alla ricerca e all’innovazione anche attraverso incentivi fiscali ed economici, per stimolare le sinergie fra pubblico e privato;
recupero della Strategia energetica nazionale (SEN).
CISL e UIL.
Secondo la CISL la green economy non deve esaurirsi in un ragionamento di nicchia, ma deve intendersi come economia ambientalmente e socialmente più orientata, dove i parametri ambiente e lavoro devono costituire gli elementi fondanti del nuovo sviluppo e in cui occorre garantire maggiore partecipazione dei lavoratori e delle rappresentanze sindacali che non è automatica nella green economy.
Occorre quindi ridurre l’impatto ambientale dell’industria tradizionale e dare spazio alle nuove industrie, all’industria delle rinnovabili, ad esempio, ma anche riportare al centro il lavoro. Per questo la CISL ritiene necessaria una legislazione di sostegno ai nuovi diritti ambientali dei lavoratori e dei rappresentanti dei lavoratori: un lavoratore non ha diritto soltanto a difendere il suo reddito, ma anche al fatto che la sua impresa non inquini il suo territorio e la sua comunità. Quel lavoratore, quella rappresentanza sindacale devono avere il diritto al miglioramento ambientale continuo. Il fondamento dell’impresa deve essere una responsabilità sociale sul territorio che deve combinarsi con il diritto fondamentale del miglioramento ambientale continuo. Analogamente, bisogna stabilire la non ricattabilità del lavoro rispetto a criticità ambientali e, quindi, ragionare anche in termini di cassa integrazione verde. Queste questioni non sono fantascienza: sono già il risultato di un contratto importante, il contratto nazionale dei chimici.
Occorre inoltre portare la green economy nella contrattazione, per esempio introducendo i parametri ambientali come elemento fisso del premio di produttività.
Secondo la CISL occorre dare forza allo scenario europeo low carbon al 2050. Lo scenario energetico dei prossimi anni è quello della produzione distribuita, della produzione di fonti rinnovabili diversificate, perché questo è un Paese che ha anche la geotermia, l’eolico, l’acqua, l’idrico, il sole ecc., nonché quello dell’efficienza energetica degli edifici. In merito a tale ultima tematica la CISL propone di anticipare di 3 anni le scadenze fissate dall’Europa per arrivare ad edifici a consumo di energia quasi zero, in maniera tale che tecnologie, prodotti e innovazioni si sviluppino prima, in modo da costituire una grande opportunità per superare la situazione stagnante del settore dell’edilizia.
Lo stesso vale per la cosiddetta «rottamazione» dei quartieri. In questo senso va la proposta di legge sul consumo di suolo. In proposito la CISL afferma che occorre certo rendere conveniente ed esigibile il meccanismo della rottamazione e della riqualificazione del patrimonio edilizio esistente, ma in tal modo si rischia di porre vincoli ambientali alla possibilità di nuove costruzioni e di non creare certezze e convenienze sulla riqualificazione del già costruito. Su questo tema quindi la CISL è favorevole, ma con gradualità.
Sulla fiscalità ambientale la CISL è pienamente d’accordo, nella misura in cui va ad alleggerire la pressione fiscale sul lavoro e sulle imprese, così come è d’accordo sulla carbon tax. Secondo la CISL tale tassa deve raggruppare alcune tasse che già ci sono (per esempio sui combustibili e sui carburanti) e anche sostituire l’ETS che non funziona e non ha mai funzionato. Con la carbon tax inoltre si potrebbe fare un diverso approccio al post-Kyoto perché questa imposta potrebbe essere uno strumento contro il dumping sociale e ambientale.
La UIL sottolinea come ci sia attualmente un forte interesse delle categorie dei lavoratori alle tematiche della green economy, dagli agricoltori ai lavoratori edili, che senza l’ecobonus avrebbero avuto probabilmente una situazione tragica. Così come sta crescendo un po’ dappertutto l’idea che la nostra economia si salva sul piano dalla qualità, ma non sul piano del prezzo più basso.
La UIL evidenzia altresì il ruolo chiave che può avere la pubblica amministrazione sia sul piano degli acquisti verdi, sia su quello della revisione degli immobili (rimettere a norma gli edifici più vecchi della P.A. determinerebbe un risparmio di 92 milioni all’anno, detraendo i costi della ristrutturazione).
La UIL sottolinea quindi l’importanza della green economy, che si è dimostrata essere l’unica performante in una situazione di crisi, che deve essere sostenuta con una adeguata semplificazione normativa da una fiscalità di vantaggio e i cui investimenti dovrebbero essere esclusi dai vincoli del Patto di stabilità.
Greenpeace e Legambiente.
Il rapporto Energy [R]evolution di Greenpeace, nel sottolineare anzitutto le profonde trasformazioni degli ultimi anni per il settore dell’energia in Italia e in Europa, pone l’accento sulla necessità di favorire ulteriormente la rivoluzione energetica pulita per contrastare sia la crisi economica che la crisi climatica, invitando pertanto ad un ripensamento delle strategie energetiche a livello globale e nazionale.
Nel ritenere che i migliori mezzi a disposizione per ridurre le emissioni e migliorare l’indipendenza e la sicurezza energetica dell’Italia siano le fonti rinnovabili e nuove misure di efficienza energetica, lo scenario Energy [R]evolution mostra che il Paese sarà in grado di conseguire una riduzione dei gas climalteranti nel lungo periodo molto significativa, passando dalle attuali 7 tonnellate di CO2 per abitante a 0,5 tonnellate per abitante nel 2050; favorendo altresì la creazione di nuove figure professionali e posti di lavoro. Il Rapporto sottolinea altresì l’importante opportunità di fare della decarbonizzazione dell’economia uno dei pilastri principali per rinnovare il sistema energetico e per rilanciare la ripresa industriale del paese.
Nel documento si invita pertanto il Governo a dare una spinta alle politiche nazionali ed europee per affrontare la questione climatica in modo da migliorare la competitività interna e assicurare una maggiore indipendenza energetica dall’estero, sottolineando altresì che gli obiettivi necessari siano il 45 per cento di energia finale da fonte rinnovabile e una riduzione delle emissioni di gas serra del 55 per cento entro il 2030. Si rileva altresì la necessità di semplificare le procedure amministrative, di dare stabilità e certezza ai meccanismi di incentivazione e di facilitare l’accesso al credito.
Greenpeace condivide con l’industria delle rinnovabili una serie di richieste prioritarie che la politica dovrebbe implementare per incoraggiare la rivoluzione energetica:
eliminare tutti i sussidi, diretti e indiretti, alle fonti fossili e al nucleare;
internalizzare i costi esterni sociali e ambientali della produzione di energia da fonti tradizionali;
imporre severi standard per l’efficienza energetica in tutte le apparecchiature elettriche gli edifici e i veicoli;
stabilire obiettivi legalmente vincolanti per lo sviluppo delle fonti rinnovabili e per la cogenerazione;
garantire la priorità di accesso alla rete per gli impianti a fonte rinnovabile per la produzione di energia elettrica;
garantire ritorni sicuri e stabili agli investitori, per esempio attraverso meccanismi di incentivazione con tariffe «feed-in»;
introdurre e migliorare i sistemi di certificazione e di etichettatura energetica per fornire maggiori informazioni sugli impatti ambientali dei prodotti;
aumentare i fondi destinati alla ricerca per le fonti rinnovabili e l’efficienza energetica.
Nel rilevare altresì la necessità di quadri normativi stabili nel tempo, al fine di pianificare gli investimenti nel settore energetico, sia in nuovi impianti che per l’ammodernamento delle infrastrutture, il rapporto di Greenpeace intende fornire quindi un percorso concreto, economico e sostenibile verso la riconversione del sistema energetico in modo da favorire l’indipendenza energetica dell’Italia e affrontare la sfida dei cambiamenti climatici, seguendo quattro principali linee di indirizzo:
1. adottare obiettivi legalmente vincolanti per la riduzione delle emissioni, l’efficienza energetica e le fonti rinnovabili;
2. rimuovere le barriere che limitano lo sviluppo delle rinnovabili e di misure di efficienza energetica;
3. implementare politiche efficaci per la transizione verso un futuro energetico pulito e sostenibile;
4. assicurare infine i finanziamenti per attuare la rivoluzione energetica.
Secondo Legambiente la green economy non è uno dei filoni su cui può ripartire il Paese, in parallelo agli altri filoni tradizionali delle strutture produttive italiane. Nella crisi globale si conferma che, solo ripensando in questa chiave i settori tradizionali, l’Italia potrà avere un futuro. La green economy non è un pezzo di chimica che si associa in parallelo alla chimica tradizionale o qualcosa di innovativo nella siderurgia: è una chiave per ripensare l’intera chimica, la siderurgia, l’edilizia, l’agricoltura. Se infatti non si immaginano nuove politiche, il rischio è che rimanga una nicchia crescente dentro settori che entreranno sempre più in crisi. Nell’edilizia e nella chimica sta succedendo proprio questo: cresce il pezzo della green economy mentre muore o si affievolisce quello tradizionale.
Per Legambiente vi sono tre punti fondamentali:
la legalità; basti pensare a quanto fatichino le imprese in particolare al Sud per la pervasiva presenza della criminalità organizzata e della sistematica violazione della legalità;
la fiscalità; occorre uscire da una logica per cui si parla solo di incentivi, ma occorre ripensare complessivamente la fiscalità nel nostro Paese proprio a partire dalle questioni ambientali. Inoltre, occorre spostare il peso della fiscalità sui consumi energetici di risorse, perché è così che si apre uno spazio trasparente alla green economy. Ci sono sistemi di tassazione da introdurre rispetto al settore energetico. Legambiente considera molto più efficace una carbon tax sulle centrali termoelettriche, riducendo invece la fiscalità sull’energia sull’esempio di quello che si fa all’estero per il trasporto pesante delle merci su gomma, riducendo la fiscalità sugli autoveicoli. Per quanto riguarda la tassazione dei beni e dei prodotti, occorre fare in modo che l’insieme delle tasse sui prodotti e sui beni (l’IVA, le accise, l’IMU, la TARES) premi i comportamenti virtuosi e l’uso efficiente delle risorse. In questo modo si premierebbero le fonti rinnovabili non attraverso incentivi, ma attraverso il vantaggio che determina il fatto di non emettere CO2, analogamente a ciò che è stato fatto per gli abbonamenti dei mezzi pubblici;
le fonti rinnovabili e l’efficienza energetica in edilizia e nei consumi civili. Si potrebbero legare i due temi e quindi scegliere per le fonti rinnovabili e per l’innovazione negli usi civili il premio dell’autoproduzione da fonti rinnovabili e della gestione delle reti elettriche e termiche con la vendita diretta dell’energia.
Secondo Legambiente l’Italia ha enormi potenzialità nei prossimi anni, se sceglierà la strada della green economy, ma bisogna fare in modo che ci siano politiche nuove; per esempio, se si vuole dare un futuro al comparto manifatturiero, compreso quello siderurgico e quello più pesante, un investimento che andrebbe fatto è quello di comprare treni. Si tratta di spingere un settore produttivo d’eccellenza, che contempla alcune delle fabbriche di treni più grandi in Europa (Ansaldo Breda a Pistoia come in Calabria o in Emilia-Romagna, fabbriche della Bombardier, della Siemens e dell’Alstom) con moltissimi posti di lavoro. Il problema è che, se non si decide di comprare treni e investire sul trasporto pendolare, non si darà mai un futuro a quelle fabbriche, che quindi verranno delocalizzate, perché altri Paesi in Europa e nel mondo stanno investendo in quella direzione. L’aspetto paradossale è che un’impresa come l’Ansaldo Breda oggi vive grazie ai treni che vende a Miami e nel Sud Est asiatico, perché in Italia sostanzialmente non riesce a vendere treni pendolari in quanto nessuno li compra.
Kyoto Club.
Dopo aver rinviato, per il quadro generale al Rapporto Greenitaly di Symbola-Unioncamere, in grado di dimostrare come l’economia verde possa essere una soluzione e una strategia per uscire dalla crisi economica, il direttore del Kyoto Club si sofferma su due questioni.
La prima questione è la bioeconomia, con riferimento specifico alle bioplastiche. In proposito il Kyoto Club propone di utilizzare il disegno di legge «collegato ambientale» per dare un impulso al settore delle bioplastiche e a quello connesso alle bioraffinerie, le quali possono rappresentare un potenziale di riconversione del comparto della chimica in direzioni ambientalmente sostenibili (si pensi alle isole di plastica nei mari) e utili anche nella lotta ai cambiamenti climatici.
In proposito il Kyoto Club propone di inserire nel collegato ambientale: la piena implementazione del decreto italiano sugli shopper; l’impegno a promuovere un miglioramento continuo del profilo ambientale delle bioplastiche biodegradabili; iniziative volte a garantire un’adeguata tutela dei mari e del suolo; il riconoscimento del rifiuto organico come risorsa; la promozione del riciclo degli imballaggi e dei materiali di scarto come motore dell’economia locale; lo sviluppo dei territori e la valorizzazione delle materie prime locali e degli scarti, sostenendo fenomeni di reindustrializzazione e riconversione in bioraffinerie integrate orientate ai prodotti ad alto valore aggiunto; incentivi alla ricerca di nuove tecnologie.
La seconda questione è l’efficienza energetica, un tema cruciale sia per il recepimento della nuova direttiva europea, sia perché con la presidenza italiana dell’Unione europea l’Italia sarà chiamata a svolgere un ruolo sul cosiddetto Pacchetto clima-energia al 2030.
In relazione al recepimento della direttiva il Kyoto club ritiene che esso offra l’occasione di attuare un Piano nazionale per l’efficienza energetica che creerebbe diverse centinaia di migliaia di posti lavoro e permetterebbe l’ammodernamento del sistema Italia. Un ruolo importante da considerare nel recepimento dovrebbe poi essere l’automazione negli edifici sia pubblici che privati. Il fatto che l’Italia abbia già una filiera completa in tale settore consentirebbe di tradurre la spinta in tal settore in un’occasione di crescita del made in Italy.
In relazione al «pacchetto europeo per il 2030» il Kyoto Club auspica l’assunzione di obiettivi legalmente vincolanti a livello dell’UE non solo per la riduzione delle emissioni di gas serra, ma anche per l’efficienza energetica e per le energie da fonti rinnovabili, perché senza obiettivi vincolanti anche per l’efficienza energetica diventa molto complicato raggiungere gli altri target. Incentivando l’efficienza energetica e le rinnovabili si evitano emissioni, alternativa preferibile a quella di «sequestrarle».
COBASE.
COBASE è una organizzazione scientifica indipendente accreditata a partecipare al lavoro di varie convenzioni internazionali.
Nell’introduzione dell’audizione è stato richiamato il principio della bioeconomia, cui si ispira l’attività di ricerca di COBASE, i cui elementi essenziali sono la dinamicità, la diversità, l’asimmetria, la scarsità delle risorse e la considerazione che i processi non sono ciclici. Queste caratteristiche distinguono la bioeconomia dall’economia neoclassica, basata sull’assunto che le risorse sono infinite ed è possibile, di volta in volta, trovare nuovi equilibri e tornare alla situazione precedente la crisi. L’economia neoclassica è statica, fondata sulla possibilità di riprodurre i processi e di trovare costantemente un equilibrio attraverso la variazione delle tre variabili fondamentali, capitale, lavoro e risorse. La bioeconomia si distingue anche dall’economia verde, presentata come un insieme di attività volte genericamente a salvaguardare l’ambiente e a produrre nuovi livelli di occupazione. Esiste, secondo COBASE, una profonda discriminante di natura tecnico-scientifica per distinguere le attività economiche che possono far parte dell’economia verde e quelle che, prendendo spunto da un approccio bioeconomico fondato sui rendimenti del sistema, sono da considerarsi operazioni di pura cosmesi, se non vere e proprie mistificazioni. È stato evidenziato che la caratteristica critica dell’economia verde è la mancanza di efficienza, particolarmente evidente nell’utilizzo delle energie rinnovabili.
COBASE ha quindi presentato le seguenti proposte sull’energia:
riduzione certificata dei consumi;
aumento dell’efficienza energetica nell’industria, nell’agricoltura, nelle abitazioni e nei trasporti;
miglioramento delle prestazioni energetiche e ambientali delle centrali termoelettriche e idroelettriche esistenti;
miglioramento delle prestazioni energetiche ambientali di tutti i combustibili disponibili per almeno trent’anni;
costruzione di nuove centrali solo di piccola taglia e solo per uso locale, previo consenso partecipato dei cittadini coinvolti;
sviluppo della cogenerazione di elettricità e calore;
sviluppo del teleriscaldamento e del teleraffreddamento;
sviluppo della ricerca su idrogeno e fusione fredda e sulle tecnologie di trasferimento dell’energia;
uso delle energie rinnovabili solo se viene garantito un rendimento netto certificato non inferiore al 40 per cento per trent’anni, previa analisi del rischio ambientale.
È stato quindi rilevato che le tecnologie per la produzione da fonti rinnovabili non sono mature per il mercato, in quanto il loro rendimento è infinitesimo. Esse non hanno alcun impatto né sulla problematica energetica, né sulla problematica ambientale, in particolare per quanto riguarda la produzione di CO2 peraltro alimentata dal silicio industriale utilizzato nella costruzione dei dispositivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili.
Con riferimento al ciclo produttivo interrotto, è stato sottolineato che esso viene interrotto perché non esistono fabbriche a energia alternativa che producano dispositivi a energia alternativa. In sostanza, si usa l’energia tradizionale proveniente dalle centrali termoelettriche per produrre dispositivi che hanno un rendimento molto più basso delle centrali termoelettriche che sono state utilizzate.
Con riferimento agli incentivi, è stato evidenziato che coloro che pagano l’energia tradizionale hanno dovuto pagare molto di più per finanziare gli incentivi per la costruzione di dispositivi a energia rinnovabile, che influisce nel bilancio globale di produzione dell’energia solo per l’1,8 per cento.
Una delle proposte qualificanti di COBASE è la città elettrica. Si tratta di progettare insediamenti umani che imitino gli ecosistemi naturali, che permetteranno, con lo sviluppo dell’asimmetria delle strutture e degli agglomerati urbani, nonché dell’agricoltura tradizionale locale, di ripristinare l’equilibrio di sistemi urbani critici. Nella città sarà consentito solo l’uso di energia elettrica, che è la produzione di più alta efficienza finora realizzata.
L’energia viene prodotta fuori dalla città con la cogenerazione e trasportata nella città con il teleriscaldamento e il teleraffreddamento. L’energia entra nella città solo sotto forma di elettricità, di calore e di freddo, dopo che è stata trasformata. Nella città non sarà consentita alcuna combustione. Le attività produttive ad alto impatto ambientale ed energetico saranno fuori dalla città, mentre saranno consentite attività produttive di piccole dimensioni e a basso impatto ambientale ed energetico.
I rifiuti industriali dovranno essere abbattuti dai produttori. Saranno consentite attività commerciali e servizi a basso impatto ambientale e ad alta efficienza energetica, certificati.
Agricoltura e biodiversità potranno penetrare nella città non separando più l’agricoltura dalla biodiversità e favorendo l’utilizzo di orti sociali e delle serre e con la realizzazione di parchi agro-ecologici. Si tratta di rideterminare intorno alle città situazioni agricole strettamente collegate, che abbiano la caratteristica di realizzare prodotti qualificati, tradizionali e locali e di garantire la salvaguardia della biodiversità locale (piante e animali) di fronte alla prospettiva che si determini un’appropriazione globale di cibi globali, a basso costo, che verranno distribuiti nelle situazioni generali.
Movimento per la decrescita felice (MDF).
Il Movimento per la decrescita felice ha inviato due documenti alle Commissioni riunite, più un allegato tecnico concernente i risultati di un’indagine effettuata sui consumi degli edifici pubblici e relative potenzialità degli interventi di efficienza energetica.
Il fulcro dell’appello rivolto dal Movimento alle Commissioni è in sostanza quello della necessità, in un momento di crisi e di cambiamento epocale come l’attuale, di rimettere in discussione dei veri e propri dogmi contemporanei, in primis quello della necessità della crescita continua del Prodotto Interno Lordo. La credenza diffusa è quella che l’aumento del PIL comporti necessariamente un aumento dell’occupazione e quindi della domanda e del benessere generale; i dati reali dimostrano invece che tale automatismo non esiste. Quello della crescita del PIL sembra diventato l’unico parametro per misurare il nostro benessere, e la felicità sembra essere misurata attraverso la quantità di cose che possono essere comprate e possedute: occorrerebbe una virata decisa dalla quantità alla qualità della produzione, attraverso un programma di recupero ambientale, economico ed energetico.
È necessario quindi cambiare le priorità anche nella definizione delle spese produttive: ad esempio spese finalizzate tramite project bond alla realizzazione delle grandi opere anzitutto costituirebbero un debito a carico delle future generazione, poi sarebbero foriere di grandi danni ambientali avendo in genere un impatto di grande rilievo ed infine creerebbero poca occupazione perché il flusso economico si concentrerebbe su poche imprese. Diverso sarebbe invece indirizzare le risorse esistenti verso una serie di piccoli cantieri operanti nella realizzazione di lavori quali l’efficientamento energetico, le bonifiche ambientali, la messa in sicurezza del territorio: questo tipo di investimento genera molti posti di lavoro in più ed è una spesa qualitativamente valida. Nel caso specifico dell’efficientamento energetico (come dimostra anche lo studio contenuto nell’allegato 1) occorre anche considerare che le spese si ripagherebbero in un numero relativamente basso di anni attraverso il conseguito risparmio energetico, liberando quindi nuove risorse per nuovi utilizzi.
3.3 Istituti di ricerca.
Enea.
L’ENEA, per la sua missione, per la capacità di affrontare problemi complessi in maniera integrata e sistemica e per la sua tradizionale collaborazione con il mondo delle imprese e dei servizi, si propone tra i principali attori in grado di indirizzare il nostro Paese sui percorsi virtuosi per dare piena attuazione ai principi della green economy. In proposito, i rappresentanti dell’ENEA hanno evidenziato che il Presidente Zingaretti ha stipulato con l’ENEA un protocollo d’intesa per lo sviluppo della green economy, che mette l’ENEA al servizio della regione che ospita i due più importanti centri di ricerca dell’Agenzia.
Gli investimenti mondiali in ricerca e sviluppo rivolti alla green economy rappresentano ancora una parte relativamente modesta del totale di investimenti in ricerca e sviluppo, da pochi punti percentuali a meno del 15 per cento, ma il trend degli ultimi anni conferma il rapido aumento degli stessi. Il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente sostiene che il 2 per cento del PIL mondiale annuo da investire fino al 2050 nei settori chiave basterebbe per uscire dalla crisi economica e ambientale e per favorire la transizione verso un’economia verde. Un recente studio commissionato dall’Unione europea ha stimato il valore del settore europeo delle ecoindustrie pari a 319 miliardi di euro, per un totale di 3,5 milioni di addetti. Un analogo studio britannico ha stimato il valore del settore a livello mondiale in 3.800 miliardi di euro nel 2010.
Nel nostro Paese, la percentuale di imprese che investono in tecnologie ambientali è fortemente cresciuta, attestandosi intorno al 57 per cento, quasi raddoppiando nel biennio 2010-2011 sia nelle piccole sia nelle medie imprese.
Tali valori sono positivi, anche se la grande maggioranza degli investimenti in green economy, a livello sia internazionale sia nazionale si distribuisce in maniera significativa soltanto nei settori della cosiddetta industria ambientale e della produzione sostenibile di energia, mentre pochi investimenti ancora si registrano nel settore dell’industria manifatturiera e di altri settori industriali. L’industria manifatturiera è responsabile di circa il 35 per cento dell’energia globale impiegata, di oltre il 20 per cento delle emissioni mondiali di CO2, di più di un quarto di estrazioni di risorse primarie, di circa il 10 per cento della domanda globale di acqua, di circa il 17 per cento dell’inquinamento atmosferico. Per rendere verde questo settore, bisogna estendere la vita utile dei manufatti attraverso una più attenta progettazione che consideri il ricondizionamento e il riciclaggio fasi di una produzione a ciclo chiuso, in un’ottica di riduzione drastica dei rifiuti. Il riciclaggio di materiali come l’alluminio, per esempio, richiede solo il 5 per cento dell’energia richiesta per la produzione primaria.
Il passaggio alla green economy implica la capacità di innovare non solo cicli produttivi e consumi, ma anche cultura e stili di vita tramite lo sviluppo e la messa in pratica dell’ecoinnovazione, che tenga conto del profilo economico e delle dimensioni sociali e ambientali come componenti imprescindibili dello sviluppo sostenibile.
I rappresentanti dell’ENEA hanno poi citato, infine, anche la messa in sicurezza del territorio, che, secondo stime del Ministero dell’ambiente, richiederebbe 40 miliardi di euro in 20 anni, cioè 2 miliardi di euro l’anno, con un ritorno annuale di 6 miliardi di euro l’anno tra costi di emergenze evitati e sviluppo economico. In conclusione, l’ineludibilità di avviare un processo di innovazione per cogliere efficacemente l’opportunità della green economy richiama fortemente l’attenzione sul ruolo di una politica di ricerca pubblica che integri le competenze, non disperda le risorse umane e strumentali, ottimizzi le disponibilità finanziarie e che perciò sia determinante per gli investimenti privati.
Il nodo principale della promozione dei settori che si possono definire driver della cosiddetta green economy è legato anche alla capacità di offerta tecnologica, dove l’Italia sconta la mancanza quasi totale negli anni passati di un approccio capace di una più efficace visione integrata a livello politico dei processi di innovazione.
Ambiente Italia.
I rappresentanti di Ambiente Italia hanno esordito evidenziando che la green economy, per trovare in questo Paese un adeguato sviluppo, necessita di alcune precondizioni, che sono le stesse di ogni attività economica, come ad esempio la legalità, la certezza del diritto, la riforma della burocrazia, l’efficacia e la trasparenza della pubblica amministrazione.
Diventa necessario definire criteri che consentano di riconoscere un sistema realmente improntato alla green economy. Secondo Ambiente Italia, la green economy:
massimizza l’efficienza in tutte le sue declinazioni, nella trasformazione delle materie prime, nell’uso dell’energia, nell’uso del suolo, nell’impiego di prodotti e servizi, nell’allocazione di risorse scarse, che si tratti di risorse fisiche, ambientali, economiche, sociali o finanziarie;
sposta l’attenzione dal possesso dei beni all’accesso ai servizi; si tratta di invertire una tendenza alla sempre più rapida obsolescenza dei prodotti di consumo verso una durata maggiore, sostituendo la produzione di beni con la fornitura di servizi di manutenzione e riparazione e con forme di accesso a beni condivisi;
investe in tutela del territorio, in infrastrutturazione diffusa più che in poche grandi opere, in manutenzione ed efficienza dell’impiego di capitale fisso sociale esistente più che nella costruzione di nuove infrastrutture;
investe risorse umane nella ricerca scientifica e nell’innovazione tecnologica, ma anche in cultura, istruzione e formazione;
mette in campo strategie e scelte quanto più possibile reversibili (reversibilità negli usi del suolo, ad esempio, ma anche nei modelli di sfruttamento delle risorse (dunque progressivo spostamento su risorse rinnovabili) e nelle politiche territoriali; reversibilità delle scelte significa anche adattamento, anzitutto al cambiamento climatico, ma anche alle mutate condizioni geopolitiche socio-economiche globali.
Un’altra questione evidenziata è quella della misurazione, in quanto il PIL è un indicatore inadeguato a restituire le performance e a rappresentare lo sviluppo di un sistema economico, e quindi occorre definire sistemi e strumenti di rendicontazione in grado di rappresentare adeguatamente gli obiettivi di sostenibilità ambientale ai quali la green economy si ispira.
Un ulteriore elemento da considerare è quello della sostenibilità economica. Un processo di sviluppo non può essere stabilmente e continuativamente alimentato da incentivi e aiuti, i quali servono a far partire un sistema che, però, deve poi alimentarsi con risorse proprie o, comunque, essere in grado di mantenere lo sviluppo senza bisogno di essere continuamente incentivato.
Un ulteriore problema riguarda la normativa di settore e di tutela dell’ambiente, pensata e sviluppata avendo in mente quella che gli economisti definiscono brown economy, cioè l’economia dei pochi impianti di grandi dimensioni inquinanti concentrati e via discorrendo. Questo sistema, tradotto in un’economia più diffusa, fatta di interventi più piccoli, magari reversibili, cioè smontabili, asportabili, che non trasformano permanentemente il territorio, rischia di tradursi in una forma di «affaticamento» di tutte le procedure di autorizzazione e di gestione della localizzazione delle attività economiche sul territorio.
Infine, occorre ricostruire una politica industriale sulla base di criteri di sostenibilità e durabilità delle risorse, occorre riorientare verso la green economy anche la politica infrastrutturale. Esiste infatti un problema di manutenzione diffusa del territorio che, insieme a quello delle città, della riqualificazione delle aree urbane, della costruzione di aree urbane in grado di comportarsi in modo resiliente nei confronti di cambiamenti climatici, ormai parte dallo scenario di breve e medio termine considerato a livello europeo.
Unioncamere e Symbola.
Unioncamere realizza da alcuni anni, insieme alla fondazione Symbola, un rapporto sul mondo economico, in particolare per analizzare le misure che le imprese pongono in essere per cogliere l’opportunità di un’economia che renda la sostenibilità ambientale, sociale ed economica della loro attività il punto di competizione.
È stata posta l’attenzione sulla questione occupazionale. Secondo l’Eurobarometro 2012, le imprese italiane si stanno muovendo con particolare impegno per accrescere il numero dei green job. Dalle indagini emerge che, da qui al 2014, il 51 per cento delle piccole e medie imprese italiane impiegherà nel proprio organico almeno una figura professionale definibile come un green job. La media europea si attesta invece al 39 per cento delle imprese e questo significa che c’è, anche in analisi comparative delle imprese in Europa, un posizionamento delle imprese italiane già molto solido su questo versante. Analizzando i dati ISTAT delle forze di lavoro, Unioncamere e Symbola hanno quantificato in 3.100.000 le figure degli occupati italiani che fanno riferimento a questo tipo di economia, e per il 2013 un quarto della domanda di figure professionali è ascrivibile a professioni verdi.
L’altra questione importante è che, pur essendoci delle concentrazioni nelle aree metropolitane e in province con caratteristiche distrettuali, la ristrutturazione in senso green del nostro sistema imprenditoriale ha assunto una «pervasività territoriale» che interessa anche ampie aree del Mezzogiorno. La caratteristica della green economy per l’Italia è data dal fatto che interessa i settori manifatturieri, quindi la metalmeccanica, l’elettronica, oltre a interessare, naturalmente, l’edilizia, la chimica, settori dei servizi come il turismo. Si parla, quindi di chimici ambientali, di geometri ambientali, di tecnici del risparmio energetico, di ingegneri ambientali, ma anche sempre più di un’attenzione al mondo dei consumi, con esperti di acquisti verdi, tecnici di impianti di illuminazione sostenibili, installatori e montatori di macchinari di impianti industriali a basso impatto energetico, tecnici delle energie rinnovabili. Le assunzioni di green job avvengono poi molto più frequentemente che per gli altri tipi di mestieri con contratti a tempo indeterminato: 6 assunzioni su sono a tempo indeterminato.
Per quanto riguarda il numero di imprese italiane che investono in prodotti o in tecnologie green, esse sono, dal 2008 al 2013, 328, cioè quasi 1 su 4. Di queste, 290.000 sono imprese con meno di 50 dipendenti (naturalmente, la maggior parte, più della metà delle medie e delle grandi imprese, fa questo tipo di investimento). Non si tratta, peraltro, solo del mercato energetico, quanto prevalentemente del mercato proprio dei settori del made in Italy: della meccanica, dell’alimentare, del tessile, dell’abbigliamento, delle calzature.
Per quanto concerne la misurazione dell’ecoefficienza complessiva del sistema economico, la riduzione delle emissioni gassose tra il 2007 e il 2012 è superiore al 2,4 per cento ed è dell’1,9 per cento quella di rifiuti solidi; sono altresì diminuiti i rifiuti non gestiti dal ciclo produttivo del 2,7 per cento ed è diminuita la quota di consumi energetici di oltre il 6 per cento. L’ecoefficienza di medio e lungo periodo si sta, dunque, confermando molto importante. Anche l’agricoltura sta investendo molto in questo versante, e in 3 anni sono stati enormemente ridotti consumi di energia e di acqua per unità di prodotto.
È stato altresì evidenziato che, se si volesse quantificare quanto PIL rappresenta l’insieme delle imprese con la caratteristica di occupati green, si dovrebbe dire che pesano per più di 100 miliardi di euro sul valore aggiunto nazionale; il 10 per cento, quindi, del prodotto interno lordo, se escludiamo il sommerso, è di green economy già oggi.
La Fondazione Symbola ha rilevato che in Italia tutti i settori imprenditoriali sono spinti da due forze: una è legata a fare efficienza sui costi, quindi sostenibilità ed efficienza servono alle aziende per essere più competitive; l’altra è la prevalenza dell’export perché i mercati esteri, infatti, sono molto più attenti al tema della sostenibilità.
Nel settore ceramico, ad esempio, quasi tutte le aziende oggi hanno certificazione LEED, legata al fatto che gran parte delle aziende del settore esporta su mercati americani. Oltre all’energia consumata per unità di prodotto, è importante anche la riduzione materica. Nel settore della ceramica, oggi si registra un’immissione di prodotti che, a parità di prestazioni, hanno uno spessore tre volte più basso. Questo significa che, attraverso la tecnologia, si riesce ad avere prestazioni uguali con una riduzione materica, generando quindi efficienza, riduzione di costi e sostenibilità.
Altro tema è quello della specificità del settore. Quando si parla di green economy, non si parla di qualcosa di uguale per tutti i settori. Nel settore della nautica, ad esempio, la specificità è ridurre il peso delle imbarcazioni, quindi il tema è l’efficienza delle carene o lo smaltimento a fine vita dell’imbarcazione nel settore. Nel ceramico, è la riduzione materica e il reimpiego – tra l’altro, l’Italia in questo è leader – di tutti gli scarti di produzione. Oggi, la ceramica riutilizza il 100 per cento di scarti di produzione e anche scarti di altri cicli produttivi, mentre nel tessile si impiegano coloranti di origine vegetale o di fibre di origine naturale.
In conclusione è stato ricordato che nel settore della meccanica, che a livello internazionale sta trainando moltissimo, vi è una forte esigenza di efficienza. Oggi, gli italiani stanno vendendo tantissimo all’estero perché mediamente le produzioni italiane consumano dal 20 al 30 per cento in meno.
Prof. Riccardo Pietrabissa (Network per la valorizzazione della ricerca universitaria).
È stata illustrata la visione del sistema della ricerca sottolineando che gli ambiti applicativi della green economy, quali l’agricoltura, l’alimentazione, l’ambiente, l’energia, le materie prime e i rifiuti, devono essere integrati in un unico progetto. L’altro ambito d’integrazione è quello dell’università, del sistema pubblico, della ricerca e dell’alta formazione. Il terzo, infine, riguarda gli investimenti senza i quali non è possibile alcun progetto.
Fabio Fava, rappresentante italiano nel Comitato bioeconomia di Horizon 2020.
Sono state illustrate le tematiche introdotte dal professor Pietrabissa. In particolare è stata sottolineata l’importanza di attuare politiche nei settori come l’agricoltura e le foreste, dove si potrebbe aumentare la fertilità, utilizzare le aree incolte, inserire tecniche di coltivazione che possano favorire la produzione di biomassa primaria. Inoltre è stata sottolineata la necessità di una gestione più razionale delle risorse idriche garantendo la purezza dell’acqua e la possibilità che siano utilizzate per l’acquacoltura e per la produzione di energia; ancora è stata evidenziata la necessità di intervenire al fine di mantenere il mare in salute e al fine di un suo utilizzo per la produzione di energia ed è stato auspicato un potenziamento dell’industria alimentare e delle bioraffinerie.
CNR.
I rappresentanti di CNR hanno evidenziato che, nell’impossibilità di esprimere per conto del CNR un parere su tutti i settori che riguardano la green economy, il parere è concentrato sulla chimica verde, o green chemistry.
Le ragioni di tale focalizzazione sono due. Anzitutto, l’Italia ha una forte tradizione nel settore della chimica, ormai obsoleta. La chimica è messa un po’ al bando in quanto considerata fortemente impattante, inquinante, ma ci sono molti siti industriali che ovviamente sono dismessi o in dismissione, che potrebbero essere proficuamente riutilizzati e impiegati nella green economy, e in particolare nella green chemistry. È stato poi evidenziato come in Italia ci siano eccellenze industriali nel settore della green chemistry, in particolare nel settore delle bioplastiche e in quello dei biocarburanti di seconda e terza generazione, che andrebbero opportunamente sfruttate. In particolare, ci sono imprese che si stanno giocando un po’ il futuro su questo argomento, ad esempio Mossi &Ghisolfi, Novamont, ENI.
Quanto alla ricerca, il settore che riguarda più da vicino il CNR, è evidenziata una crescita esponenziale in tutto il mondo di pubblicazioni scientifiche dirette proprio verso la green economy in generale e, in particolare, verso la chimica verde o, più correttamente, verso le biotecnologie bianche, e cioè quella branca delle biotecnologie che ha portato negli ultimi anni fortissimi sviluppi nella degradazione enzimatica della biomassa che è poi ciò che serve nei processi produttivi: ossia la sostituzione delle materie prime per l’industria petrolchimica con una materia prima rinnovabile, naturale, che porta quasi a zero il bilancio di CO2. È crescente, dunque, lo sviluppo di attività scientifica in tutto il mondo, in particolare nel mondo occidentale. Si tratta, infatti, forse della nostra unica chance per rimanere competitivi nei confronti di Paesi che presentano un’ampia crescita economica che consente una competitività nella produzione di prodotti consolidati nel tempo. Dal punto di vista scientifico, quindi, il fermento è grande, come testimonia l’imponente crescita del numero delle pubblicazioni in questo settore.
In Italia, ci sono già stati investimenti importanti. È stato citato l’esempio del lancio di un bando interno nel CNR, per partecipare a un progetto premiale per il quale ha ricevuto, incredibilmente, più di 400 risposte dai ricercatori, i quali hanno chiesto di mettere a disposizione le loro competenze perché ritenevano che fossero congrue e ben inquadrate all’interno della chimica verde, e quindi della green economy in generale. L’ente occupa altri spazi nella green economy, come tutta la parte delle energie alternative, dei pannelli solari e così via.
Occorrerebbe spingere su nuove vie per formare i ragazzi in tale campo, in modo che possano essere competitivi con i colleghi europei, per i quali certi ambiti sono particolarmente sentiti da tempo. Basti pensare al Nord Europa, alla Germania, ma anche alla Francia, che è un buon competitor rispetto all’Italia in questi settori.
Una formazione, dunque, sarebbe importante, ma dal punto di vista occupazionale la chimica verde, o comunque la green economy in generale, non prevede occupazione solo di altissimo livello. Bisognerebbe riuscire a rilanciare e a ricreare quei poli chimici che erano veramente importanti in Italia, riconvertendoli dal punto di vista «verde», per inquinare di meno, produrre materiali innovativi, che quindi hanno un alto valore aggiunto, ritornando competitivi sul mercato.
Nelle bioplastiche, ad esempio, l’Italia è molto competitiva. Il fatto che una delle nostre aziende italiane abbia vinto la gara per fornire il catering alle Olimpiadi di Londra con plastiche biodegradabili significa che la competitività esiste, e quindi anche dal punto di vista occupazionale potrebbero esserci vantaggi. Forse non crescerà di molto l’occupazione, ma si salverà quella delle maestranze destinate necessariamente ad andare a casa perché le industrie chimiche, così come sono oggi, certamente non sono sostenibili. Il CNR sta spingendo una parte importante della ricerca completamente verso questo tipo di approccio green, sicuramente per quanto riguarda la chimica, parte della fisica e gran parte dell’ingegneria, che ovviamente ha una parte importante anche per i riflessi sul settore dell’edilizia, sull’occupazione e sul governo del territorio.
Prof. Angelo Riccaboni, Rettore dell’Università di Siena (Università coordinatrice per il Mediterraneo del progetto delle Nazioni Unite di una rete per la sostenibilità ambientale).
Il professore ha fatto presente che tre sono le questioni su cui occorre lavorare per far sì che ci sia veramente una presenza della green economy come driver di sviluppo.
In primo luogo è stata evidenziata l’importanza dell’incentivazione degli imprenditori, i quali devono trovare il vantaggio per andare nella direzione green, cioè devono trarre giovamento dal vantaggio competitivo che può derivare dai settori tipici della green economy. Alcuni esempi sono la deduzione dell’IRAP dello 0,5 per cento da parte della regione Toscana per le aziende certificate SA 8000, oppure la previsione di ottenere un punteggio positivo nei bandi per chi è certificato o il progetto che coinvolge alcuni istituti di credito e che cerca di definire in Toscana una sorta di rating di sostenibilità.
In secondo luogo è stato rilevato come i consumatori, oggi più che mai, stanno attenti al prezzo.
La terza questione è l’esigenza di un integrated management, cioè una gestione dell’azienda che sia attenta a questi argomenti green sia in senso orizzontale, cioè nella dimensione economica, sociale e ambientale, sia in senso verticale, allineando veramente strategie, piani e comportamenti.
3.4. Imprese.
Enel e Fondazione Centro Studi Enel.
Secondo Enel la produzione di energia da fonte rinnovabile sta vivendo un vero e proprio boom: nell’ultimo decennio, infatti, è aumentato il suo peso sul mix di generazione europeo di ben 5 volte. Era il 2 per cento nel 2000 e oggi è circa l’11 per cento. Inoltre, ben il 70 per cento della nuova capacità costruita in Europa negli ultimi 10 anni è costituita da fonti rinnovabili, in maniera crescente da impianti di piccola taglia, distribuiti capillarmente su tutto il territorio. Vengono segnalate una serie di tecnologie avanzate a cui ENEL è interessata: tra esse, un primo prototipo di accoppiamento della geotermia con il solare per rendere più efficiente e maggiormente produttivo l’impianto geotermico e l’utilizzo delle maree e del moto ondoso.
Uno studio condotto dalla Fondazione centro studi Enel segnala le potenzialità di sviluppo della filiera nazionale dell’efficienza energetica e come questa abbia un positivo impatto in termini di crescita del prodotto interno lordo, di occupazione, di contenimento delle emissioni degli inquinanti, di risparmio energetico e anche di risparmio economico. Lo studio identifica una serie di barriere allo sviluppo dell’efficienza energetica, di tre natura: barriere culturali, barriere economiche, segnatamente l’entry level, ovvero l’investimento iniziale per l’adozione della tecnologia, ma anche le problematiche connesse al presidio di operatori di mercato, alla non immediatezza dei ritorni dell’investimento, barriere normative.
Questi i temi rilevanti evidenziati ai fini di un intervento politico: per primo è stato sottolineata la necessità di rivedere il tema della progressività della tariffa anche considerando i carichi familiari e reddito; quindi, la necessità di abolire il costo legato alla potenza degli impianti e di evitare lo stop and go nell’incentivazione perché rappresenta un grande limite allo sviluppo di qualsiasi filiera e disorienta gli stessi consumatori; ancora, unificare gli iter autorizzativi; infine, stimolare uno sviluppo industriale della manifattura legata alle caldaia e alle valvole.
ENI.
Eni, società integrata nell’energia con importanti attività nella chimica, è la prima società quotata italiana per capitalizzazione, presente in 90 Paesi con circa 78.000 dipendenti: una grande azienda che pone al centro delle proprie strategie la sostenibilità delle proprie attività e la «crescita inclusiva» delle comunità in cui opera, favorendo la coesione sociale e territoriale.
Per Eni essere sostenibili significa creare valore per gli stakeholder utilizzando le risorse in modo equilibrato, salvaguardando le esigenze e le opportunità delle generazioni future. La sostenibilità abbraccia, quindi, tutte le dimensioni dell’agire di impresa: quella ambientale, quella sociale e quella economica.
In questa prospettiva Eni è impegnata anche nella dimensione internazionale, proponendosi a fianco dei Paesi produttori per lo sviluppo dei sistemi energetici locali nella lotta alla povertà energetica. I risultati ottenuti hanno rafforzato la consapevolezza che è possibile coniugare economia ed ecologia anche nel settore energetico, nell’ottica di uno sviluppo economico sostenibile a livello globale.
ENI rileva che, come afferma l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), per vincere la sfida contro i cambiamenti climatici occorre puntare su quattro direttrici strategiche: efficienza energetica, riduzione della generazione elettrica a carbone, riduzione delle emissioni di metano e di gas a effetto serra nel settore oil&gas, riduzione dei sussidi ai combustibili fossili (fenomeno che interessa soprattutto le compagnie petrolifere del Medio-Oriente).
Eni concorda con l’IEA su ciascuna delle priorità identificate e ritiene che tutte le fonti energetiche e tutti i settori dell’economia debbano attivamente partecipare al percorso di decarbonizzazione. Nel proprio ambito si è attivata da anni su ciascuna delle tre opzioni strategiche su cui ha margine di azione: efficienza energetica, promozione del gas naturale nel settore termoelettrico in luogo del carbone e riduzione delle emissioni di metano.
In generale, Eni condivide gli impegni dell’Unione europea e del Governo italiano circa l’abbattimento delle emissioni di gas-serra e il contenimento degli impatti dei cambiamenti climatici; al contempo, ritiene che tali iniziative debbano limitare al massimo l’insorgenza di differenziali di competitività industriale rispetto ai concorrenti globali, evitando che impegni unilaterali finiscano per premiare i sistemi produttivi a maggiore impatto ambientale.
Eni crede in un futuro energetico in cui le fonti rinnovabili occuperanno un ruolo fondamentale: questo obiettivo richiede, tuttavia, ingenti investimenti per superare quei limiti tecnici (densità energetica, intermittenza e, in larga misura, stoccaggio) e di costo economico che oggi le rendono ancora poco significative nei consumi mondiali di energia.
In questa prospettiva, Eni è favorevole a un quadro regolatorio e normativo, in materia di clima ed energia, che garantisca la stabilità degli investimenti e una maggiore flessibilità nella scelta delle tecnologie più adeguate per l’abbattimento delle emissioni di gas-serra.
Parallelamente agli obiettivi climatici, Eni auspica che il dibattito sulle politiche energetiche porti una sempre maggiore attenzione agli altri temi rilevanti, quali la competitività e la sicurezza degli approvvigionamenti.
L’efficienza energetica, un energy mix adeguato e sostenibile, e forti investimenti in ricerca e innovazione sono, dunque, i pilastri di un’equilibrata ed effettiva trasformazione del sistema energetico al servizio di un’economia low carbon.
Eni condivide il principio, ormai riconosciuto dai maggiori operatori del settore, secondo cui l’efficienza energetica rappresenta lo strumento più conveniente ed immediatamente disponibile per migliorare la competitività, attraverso l’abbattimento dei costi energetici, e per contenere gli impatti ambientali derivanti dall’uso delle fonti fossili.
In questo quadro il gas naturale è la risorsa energetica più pulita tra le fonti fossili; inoltre è conveniente, affidabile e abbondante. In particolare, il gas naturale può consentire di raggiungere gli obiettivi europei e globali di contenimento delle emissioni in tutti i settori dell’economia.
Rispetto al settore termoelettrico, l’uso del gas naturale consente, a parità di energia prodotta, di emettere la metà delle emissioni di gas-serra rispetto al carbone e di ridurre le emissioni di altri dannosi inquinanti come l’arsenico, le polveri sottili, le emissioni di SOx e NOx10.
L’Italia ha una consolidata leadership relativamente all’utilizzo del gas naturale compresso (CNG) per il trasporto su gomma. La diffusione di questa tecnologia matura, così come lo sviluppo del gas naturale liquefatto (GNL), può contribuire concretamente a ridurre le emissioni di CO2 e di SOx, mitigando quindi gli impatti sul clima e migliorando la qualità dell’aria.
Oltre al contributo che potrà derivare da un equilibrato mix energetico e dall’uso efficiente delle risorse disponibili, l’evoluzione del sistema economico in senso sempre più sostenibile passa attraverso l’innovazione dei processi e l’introduzione di prodotti e materiali a sempre più basso impatto ambientale.
Altro tema evidenziato riguarda la CCS (cattura e stoccaggio geologico dell’anidride carbonica) che rappresenta una delle opzioni per vincere la sfida dei cambiamenti climatici. Nell’Unione europea (e in Italia) esiste un quadro regolatorio ben definito in materia ma, al momento, lo sviluppo di tale tecnologia su scala commerciale è impedito dai costi ancora elevati di realizzazione, che non reggono il confronto con gli attuali valori bassi delle quote nel sistema Emission Trading europeo.
L’adozione del Green Procurement consente di integrare i criteri ambientali in tutte le fasi del processo di acquisto e incoraggia la scelta di prodotti e servizi che hanno il minor impatto possibile sull’ambiente durante l’intero ciclo di vita.
Le iniziative di «ecolabeling» di analisi del ciclo di vita dei prodotti costituiscono uno strumento di valutazione secondo criteri di sostenibilità ambientale.
Eni, attraverso Versalis, azienda chimica di cui detiene il controllo, punta sullo sviluppo della chimica da feedstock rinnovabili integrato con la chimica tradizionale, per cogliere il grande potenziale della «chimica verde». Eni persegue un duplice obiettivo di lungo termine: 1) diversificare, offrendo prodotti a basso impatto ambientale in Paesi in forte crescita, in particolare nel Sud-Est Asiatico; 2) sviluppare la chimica da materie prime rinnovabili, anche riqualificando siti industriali non più competitivi, garantendo così occupazione di qualità e sviluppo di un nuovo indotto con filiere produttive integrate con il territorio.
Sul piano delle scelte concrete da porre in essere da parte delle istituzioni pubbliche, Eni ritiene fondamentale:
1. una visione strategica d’insieme fondata su un equilibrato bilanciamento fra i diversi obiettivi di carattere generale (ambiente, sviluppo, occupazione, competitività, modernizzazione, qualità della vita) che consenta lo sviluppo di un modello industriale «a sostenibilità reciproca»;
2. un effettivo coordinamento tra la Strategia Energetica Nazionale (SEN), il Programma nazionale di politica industriale (previsto dal ddl collegato alla legge di stabilità), la Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile (prevista dal Codice Ambientale) e il Piano nazionale di azione per l’efficienza energetica.
Un equilibrato bilanciamento tra i diversi obiettivi in gioco sarà possibile solo attraverso scelte metodologiche che prevedano altresì:
un costante allineamento della legislazione nazionale in materia ambientale al quadro comunitario di riferimento, anche nel rispetto del divieto di gold plating vigente nel nostro ordinamento, ma troppo spesso disatteso;
l’attuazione di una politica energetica/industriale sostenibile, dunque direttive di governo del territorio chiare che consentano di articolare misure di tutela ambientale razionali e traguardabili nei diversi settori impattanti;
la riattribuzione allo Stato della competenza esclusiva in materia di «energia», che darebbe un contributo rilevante alla ripresa economica del nostro Paese. Come da più parti riconosciuto, infatti, la scelta di inserire anche l’energia tra le materie a legislazione concorrente non si è rivelata del tutto funzionale allo sviluppo di politiche energetiche determinanti per il recupero della competitività. La sovrapposizione di piani energetici e normative regionali non coordinati a un livello superiore ha, di fatto, reso difficile definire una programmazione organica di una materia di rilevante interesse strategico nazionale;
la semplificazione degli iter amministrativi, anche nell’ottica di una migliore finanziabilità dei progetti innovativi. Si ritiene, infatti, indispensabile garantire agli investitori, sia nazionali che stranieri, ulteriori semplificazioni procedurali ma, soprattutto, il rispetto delle norme già vigenti. Solo in questo modo potranno essere riattivati gli investimenti, innescate importanti ricadute occupazionali, migliorate le finanze pubbliche.
Sotto un profilo più operativo sono, inoltre, giudicate necessarie:
l’adozione di misure che favoriscano le riconversioni industriali, anche prevedendo procedure agevolate per la valorizzazione dei brownfield e incentivando iniziative che ottimizzino l’integrazione con il territorio;
la promozione di una efficace politica di ottimizzazione delle risorse, attraverso l’utilizzo dei «sottoprodotti» e l’incremento delle attività di riuso e riciclo, che consentirebbe un progressivo allineamento all’obiettivo comunitario prioritario della prevenzione della produzione dei rifiuti. A tal fine, in presenza di un quadro normativo definito ed efficace, è necessario implementare un adeguato aggiornamento formativo degli enti preposti al rilascio delle autorizzazioni e al controllo delle comunità locali e, più in generale, di tutti gli attori coinvolti sul territorio;
la razionalizzazione degli schemi d’incentivazione delle fonti rinnovabili in vigore, con l’introduzione di un sistema di remunerazione della flessibilità degli impianti termoelettrici per bilanciare l’intermittenza delle rinnovabili stesse e, al contempo, lo sviluppo di un piano di incentivazione per le tecnologie innovative low-carbon ancora immature, dal punto di vista della capacità, per sostenersi autonomamente sul mercato;
l’individuazione di forme di incentivazione allo sviluppo di nuovi prodotti rinnovabili. Ogni strumento normativo che miri a quantificare e certificare il grado di rinnovabilità e di vantaggio per la collettività in termini di ciclo vita (life cycle assessment) di tali prodotti è determinante per consentirne la diffusione e l’equo confronto con quelli che, invece, mostrano minori vantaggi, anche se compensati da un minor prezzo.
Novamont.
Novamont è una realtà di innovazione che lavora sull’uso delle materie prime rinnovabili con l’utilizzo di tecnologie chimiche e ha sviluppato il Mater-Bi, il primo tipo di prodotto di bioplastiche. L’oggetto dell’attività di Novamont è lo sviluppo di prodotti a basso impatto tramite l’utilizzazione di siti deindustrializzati, la valorizzazione della biodiversità locale, ossia materie prime e scarti locali, e di tecnologie in continuo avanzamento. Lo scopo è quello di creare filiere corte che permettano non solo di fare della bioraffineria integrata un’area dove si produce materiale per le bioplastiche, ma anche, con una continua integrazione, di far emergere nuovi tipi di applicazioni. Sono state quindi illustrate le tipologie di tecnologie messe a punto da Novamont: i prodotti a base di amido, i poliesteri, il butandiolo da fonte rinnovabile.
È stata inoltre rimarcata l’importanza delle disposizioni normative sui rifiuti organici del 2006,che hanno definito una volta per tutte un compost di qualità, stabilendo che il compost non può essere fatto da raccolta indifferenziata, ma da raccolta differenziata, e che deve essere raccolto in modo corretto, senza plastiche tradizionali, eventualmente con carta oppure con prodotti biodegradabili. Ha dunque sottolineato che da questa legge è nata in Italia una grande crescita dell’organico (dai 2,6 milioni del 2006 ai 5 milioni di oggi).
Una parte significativa dell’audizione è stata incentrata sulle considerazioni in merito al rifiuto organico, in particolare nell’individuazione degli inquinanti all’interno dell’organico stesso, ossia degli shopper, i sacchetti di frutta e verdura, che vanno a inquinare un rifiuto che in realtà da grande risorsa crea costi elevati.
Novamont ha sviluppato un modello italiano per la raccolta differenziata che in questo momento sta giocando un ruolo importante e si sta confrontando con la Germania. La dott.ssa Bastioli ha ricordato che la Germania è prima a livello europeo nella raccolta differenziata dell’umido, ma ha un problema molto grave: anche laddove raccoglie in modo differenziato l’organico, ha una percentuale di organico nel resto del rifiuto molto elevata. Il modello di raccolta differenziata italiana, invece, permette con questo sistema di avere una qualità dell’organico molto buona, ma anche di avere nel resto del rifiuto, cioè in ciò che va a discarica, oppure che viene trattato in altro modo, una piccola quantità di organico.
Attraverso la combinazione virtuosa di plastiche biodegradabili, laddove c’è un inquinamento da parte di plastiche tradizionali del rifiuto organico, andando a individuare una serie di applicazioni molto specifiche, è possibile immaginare di avere un compost di qualità molto migliore, un resto del rifiuto più facilmente riciclabile e trattabile e uno sviluppo virtuoso di bioeconomia. Questa è una tecnologia che va a risolvere un problema ambientale specifico, creando una filiera importante di notevole dimensione.
I vantaggi apportati da questa tecnologia sono così individuati:
circa un miliardo di euro di investimenti privati in impianti;
tre primi impianti al mondo con tecnologia interamente italiana in questi settori, che hanno ricadute non soltanto nelle bioplastiche, ma anche nel campo dei biolubfiricanti, della cosmesi e in tantissimi altri settori;
filiere agricole dedicate, che stanno studiando e sviluppando localmente, collegate direttamente alle bioraffinerie integrate, attività di sviluppo sul territorio;
fenomeni di reindustrializzazione che occupano sei siti, tenendo conto che la chimica tradizionale delle commodity, in Italia, così come in Europa, non ha più sviluppo;
la partenza di un cluster della chimica verde che mette insieme le competenze migliori del Paese e i centri di ricerca più importanti d’Italia.
Infine è stato evidenziata la criticità rappresentata dal fatto che oggi il 70 per cento degli shopper che girano in Italia non è biodegradabile. Al riguardo è stata auspicata una presa di posizione chiara sull’applicazione delle leggi in materia.
KiteGen.
KiteGen è titolare di una tecnologia nuova, che intende sfruttare i venti troposferici. Il progetto base ha svolto quasi dieci anni di ricerca e adesso è a un livello di industrializzazione. Questa tecnologia promette di abbassare molto il costo dell’energia: 10 euro a megawattora, contro i 200-600 euro a megawattora del fotovoltaico, i 90-160 euro dell’eolico, i 60 euro a megawattora del carbone e i 90 euro a megawattora del nucleare.
KiteGen ha vinto almeno una ventina di bandi italiani, dal FIT (Fondo innovazione tecnologica) per l’energia, al digitale, ai POR, ai PNR, a Industria 2015, per un totale di progetto di 78 milioni ma, per vari motivi, KiteGen non ha mai potuto godere di un supporto italiano su questo progetto, che è stato condotto soprattutto con fondi europei.
Attualmente KiteGen è impegnata con l’Alcoa in Arabia Saudita, dove andrà ad installare le centrali, anziché in Italia, dove peraltro l’azienda vorrebbe restare.
Il giacimento di energia pulita a basso costo è sempre esistito e si dispiega su di noi sotto forma di immense quantità di energia solare trasformata in nobile energia meccanica mediante il più grande pannello solare a nostra disposizione, l’atmosfera terrestre, un pannello che può essere definito fotocinetico, anziché fotovoltaico, sempre pronto all’uso e manutenuto gratuitamente dalla natura. La rivista Nature Climate Change, nel settembre 2012, stimava la potenza estraibile dal vento troposferico senza apprezzabili modifiche climatologiche in valori prossimi a 1.800 terawattora, ovvero più di cento volte, in termini di flusso energetico, l’attuale fabbisogno di energia primaria dell’intera umanità, stimato in circa 16-18 terawatt. Sulla sola Italia fluisce una potenza totale intorno ai 100 terawatt. Ipotizzando di riuscire a estrarre e rendere disponibile in continuo anche solo lo 0,1 per cento, ovvero 100 gigawatt, da tale giacimento, l’energia ottenibile corrisponderebbe a oltre 800 terawattora all’anno, valore equivalente a una produzione netta di ricchezza endogena stimabile in 60 miliardi di euro l’anno, una ricchezza paragonabile alla bolletta energetica italiana.
Il recente sviluppo di tecnologie per lo sfruttamento del giacimento eolico di alta quota, come i materiali polimerici ultraresistenti, le tecnologie dei compositi e la riduzione del costo del supercalcolo parallelo, ha consentito di sviluppare un ampio insieme di brevetti sul concetto KiteGen eolico ad alta quota e di avviare lo sviluppo industriale di questa tecnologia, che consentirà di sfruttare l’immenso giacimento, fornendo finalmente l’energia pulita e a basso costo.
KiteGen chiede l’istituzione di una Commissione tecnica per il riconoscimento, quale fonte rinnovabile di importanza strategica, del vento troposferico e delle tecnologie completamente italiane che ne abilitano lo sfruttamento, mettendo queste in condizioni di parità con le altre fonti energetiche rinnovabili.
Tesla Italia Mobilità Green.
L’obiettivo dichiarato di Tesla a livello mondiale è quello di accelerare la transizione verso la mobilità elettrica che diverrà la maggiore produzione nel settore automotive.
La tecnologia che Tesla utilizza è legata all’infrastruttura di ricarica. Nel sottolineare l’importanza di fornire al cliente un’infrastruttura di ricarica che permetta di ricaricare la macchina nel minor tempo possibile, ha sottolineato la difficoltà di realizzare tale obiettivo con le strutture di ricarica presenti sul territorio italiano; ciò rischia conseguentemente di tradursi nella rinuncia all’acquisto da parte dell’acquirente italiano, potenzialmente interessato a questo veicolo.
Al riguardo Tesla ha iniziato l’installazione dei supercharger, che sono dei dispositivi importanti anche dal punto di vista della potenza disponibile e dal punto di vista tecnico. Sono dispositivi a 120 chilowatt che permettono di ricaricare l’auto Model S, prodotta da Tesla, in circa cinquanta minuti.
Con riferimento alle norme in vigore negli altri Paesi, è stato segnalato che in California è stato varato un Piano di incentivazione estremamente importante legato allo sviluppo della mobilità sostenibile. Lo Stato californiano si è mosso, da una parte, con un incentivo d’acquisto, variabile da 7.000 a circa 12.000 dollari per l’acquisto dell’auto, dall’altra, con un Piano infrastrutturale estremamente importante, che prevede l’installazione di punti di ricarica praticamente ovunque. In Norvegia, invece, il riferimento principale dal punto di vista dell’incentivazione è rappresentato dalla detassazione dell’auto elettrica.
È stata sottolineata l’opportunità di una riflessione sulla mancanza in Italia di un programma specifico di sviluppo e di incentivazione all’acquisto di veicoli elettrici, di una regolamentazione precisa sulla gestione del parco circolante dei veicoli elettrici e, soprattutto di una rete infrastrutturale di supporto che permetta anche psicologicamente al potenziale acquirente di avvicinarsi a questo tipo di prodotti. È stato quindi specificato che Tesla vede come priorità una regolamentazione legata al parco circolante dei veicoli elettrici. Pur non considerando gli incentivi come la chiave di volta dal punto di vista economico, essi sono un segnale molto importante, perché è rassicurante per il potenziale acquirente osservare il Governo e le Istituzioni che investono in quella direzione.
È stato infine positivamente sottolineato il fatto che ENEL abbia un Piano molto ambizioso per lo sviluppo di infrastrutture di ricarica in Italia per quest’anno e per il prossimo; Tesla formalizzerà una partnership con Enel, una collaborazione, attraverso la quale comunicare al mercato che le strutture Enel sono compatibili con le macchine Tesla, e viceversa. In conclusione è stata sottolineata l’importanza della comunicazione ed enunciata l’intenzione di implementare un Piano di comunicazione con una serie di eventi in giro per l’Italia, per illustrare al mercato che il fornitore di energia e il produttore di automobili viaggiano nella stessa direzione.
ANIDA.
ANIDA (Associazione nazionale imprese difesa ambiente), ha presentato le attività dell’associazione che riunisce le imprese di gestione dei servizi ambientali, le imprese che costruiscono e gestiscono impianti di trattamento, recupero e smaltimento di rifiuti e, infine, le imprese che costruiscono e gestiscono impianti tecnologici per il ciclo integrato delle acque.
È stato, innanzitutto sottolineato come un’indagine sulla green economy consenta di fornire suggerimenti in merito alle politiche fiscali e alle agevolazioni che interessano queste aziende.
La prima considerazione è che non esiste una società a rifiuti zero: si può intervenire, soprattutto dal punto di vista tecnologico, per produrne di meno. ANIDA si dichiara contraria allo smaltimento in discarica e auspica che possano essere introdotte nel prossimo futuro misure penalizzanti per tale modalità; si dichiara invece favorevole alla termovalorizzazione nel rispetto dei limiti più severi alle emissioni che esistono in Europa. La termovalorizzazione dei rifiuti e l’utilizzo del combustibile derivato dai rifiuti incontrano tuttora forti ostacoli in relazione ai possibili e teorici danni per la salute e l’ambiente, prescindendo molto spesso dalle garanzie tecnologiche e di sicurezza che accompagnano questi impianti. Ha auspicato che la moratoria circa la realizzazione di inceneritori, prevista all’articolo 19 del disegno di legge collegato alla legge di stabilità 2014 (collegato ambientale), duri il minore tempo possibile in modo da avere quanto prima una rete nazionale integrata e adeguata di impianti di incenerimento di rifiuti urbani, contribuendo così allo sviluppo del settore.
Sono state evidenziate altresì le persistenti difficoltà di utilizzo del SISTRI sollecitando una semplificazione della normativa secondo i principi basilari delle direttive comunitarie e le norme dei principali Paesi europei.
Con riferimento alle bonifiche, ha condiviso l’impostazione decreto Destinazione Italia (n. 145/2013), che ha previsto la stipula di accordi di programma con uno o più proprietari di aree contaminate o con altri soggetti interessati. Gli accordi sono finalizzati ad attuare progetti integrati di messa in sicurezza (o di bonifica) e di riconversione industriale e sviluppo economico in siti di interesse nazionale. Si ritiene che questa impostazione possa rappresentare una traccia da sviluppare anche a livello privatistico. In alcune aree gli Accordi di programma potrebbero prestarsi ed essere utilizzati purché vi siano interessi e convenienze alla reindustrializzazione dell’area bonificata. Ha sottolineato infine che in alcune aree si può ricorrere alla procedura semplificata secondo la quale l’operatore interessato può effettuare a proprie spese interventi di bonifica utilizzando poi l’area bonificata per gli usi legittimi.
Fater Spa.
È stata presentata alle commissioni la strategia di sostenibilità e il profilo aziendale di Fater Spa, azienda leader in Italia nella produzione e commercializzazione dei pannolini per bambini Pampers, degli assorbenti femminili Lines e dei prodotti per l’incontinenza Linidor. Dal 2013 l’azienda ha acquisito il business della candeggina ACE. Fondata nel 1958 dal Gruppo Angelini, è dal 1992 una joint venture paritetica fra il gruppo fondatore e la Procter&Gamble, con sede a Pescara.
Fater ha sviluppato per prima in Italia i mercati del pannolino (1963) e degli assorbenti femminili (1965). Impiega direttamente 1021 dipendenti e circa 1.000 persone nell’indotto. Ha circa 1 miliardo di euro di fatturato; investe 3,5 milioni di euro l’anno investiti in dati e ricerche sui consumatori; ha quattro stabilimenti di produzione: Pescara, Campochiaro (CB), Porto (Portogallo) Mohammedia (Marocco).
Fater Spa ha da alcuni anni orientato le sue attività ad una sostenibilità fondata su pilastri tematici: ambientale, sociale, di innovazione e culturale.
Il pilastro ambientale comprende i processi logistico-produttivi, iniziative per ottimizzare l’uso delle risorse, progetti di efficienza energetica, la promozione di forme di mobilità sostenibile.
Negli ultimi sei anni ha ridotto del 6 per cento il consumo di metano per unità di prodotto e del 5 per cento il consumo per unità di prodotto di energia elettrica in ambito logistico, Fater ha eliminato dalle strade 6.580 camion negli ultimi anni, risparmiando così l’equivalente di 4.500.000 km percorsi grazie allo studio di modalità più efficienti di carico dei camion e attraverso l’utilizzo del trasporto via nave per alcune destinazioni. Ha avviato un progetto di mobilità sostenibile dotandosi di mezzi elettrici per coprire i percorsi urbani effettuati dai dipendenti per motivi di lavoro; ha realizzato un impianto di cogenerazione alimentato tramite olio vegetale sostenibile per soddisfare le necessità energetiche dello stabilimento produttivo di Pescara.
Nel pilastro sociale confluiscono le attività di responsabilità sociale e ambientale e i sistemi di qualità e sicurezza. Fra i progetti più recenti:
la riqualificazione della Pineta Dannunziana a Pescara e il contributo alla realizzazione del Ponte Ciclo-Pedonale per migliorare la fruizione della città;
il finanziamento per la costruzione di un sistema di piste ciclabili a Pescara, in collaborazione con la Provincia;
attività di formazione sui temi ambientali e della sicurezza sul lavoro verso le circa 200 aziende con le quali collabora.
Il pilastro Innovazione comprende le iniziative di prodotto e packaging, il recupero dei rifiuti industriali, il ciclo di vita dei prodotti, le attività con il commercio. L’azienda ha ridotto negli ultimi sette anni il peso dei pannoloni per incontinenza del 19 per cento; Pampers negli ultimi 20 anni ha ridotto il peso dei pannolini del 45 per cento e la dimensione del packaging del 68 per cento.
Per quanto riguarda invece la valorizzazione dei rifiuti, Fater avvia a recupero il 100 per cento dei rifiuti industriali dello stabilimento di Pescara. Relativamente alla minimizzazione del post uso dei prodotti assorbenti per la persona, Fater ha ideato il primo sistema sperimentale in Italia di raccolta e riciclo dei pannolini per bambini, assorbenti femminili e prodotti per l’incontinenza usati, di tutte le marche, che consente di eliminare tali prodotti dalle discariche trasformandoli in nuove materie prime utilizzabili in differenti processi produttivi.
Il pilastro Culturale opera infine sull’incentivazione dei comportamenti sostenibili e sul monitoraggio e miglioramento costante delle performance ambientali raggiunte.
In tal senso, Fater ha avviato una serie di progetti quali l’implementazione di un sistema di scorecard che coinvolge i singoli dipartimenti aziendali ed è esteso anche ai partner di business. L’obiettivo è monitorare i risultati raggiunti in termini di efficienze ambientali e fornire supporto ai fornitori per sviluppare progetti che possano orientare maggiormente alla sostenibilità l’intera filiera produttiva, logistica e commerciale. Parallelamente al progetto di finanziamento delle piste ciclabili, Fater ha offerto a tutti i dipendenti la possibilità di acquistare a prezzi vantaggiosi biciclette a pedalata assistita per i propri spostamenti in città. Il contributo aziendale copre fino al 70 per cento del costo di acquisto delle biciclette.
Gruppo Mossi&Ghisolfi.
Nell’audizione è stato affermato che il futuro della chimica europea è nella biochimica; l’auspicio è un più diffuso utilizzo, nell’immediato, di etanolo di seconda generazione, in miscela con la benzina; successivamente si arriverà alla sostituzione dei prodotti petrolchimici con i prodotti biochimici.
Mossi&Ghisolfi sottolinea che i biocarburanti, bioetanolo e biodiesel, si sono affermati da tempo come unica soluzione credibile per raggiungere gli obiettivi fissati per i trasporti. Tuttavia, solo i biocarburanti rispettosi di severi criteri di sostenibilità possono essere conteggiati ai fini del rispetto degli obblighi ambientali e tali criteri diventano progressivamente sempre più stringenti. È per questo che si è cercato negli ultimi anni di sviluppare i cosiddetti biocarburanti avanzati (o di seconda generazione), più virtuosi dal punto di vista ambientale e più sostenibili, che non utilizzano materie prime in conflitto con la catena alimentare e che consentono drastiche riduzioni delle emissioni di gas climalteranti.
I biocarburanti rispondono anche alla crescente esigenza di individuare alternative ai tradizionali carburanti fossili per il trasporto, ottenuti da materie prime costose e necessariamente di importazione, stante la penuria di materie prime fossili in Europa, compreso il nostro Paese, in cui la capacità estrattiva è di gran lunga inferiore alla domanda (più di 10 volte).
L’esperienza del Gruppo Mossi Ghisolfi, multinazionale italiana della chimica presente in cinque Paesi nel mondo (Italia, Stati Uniti, Brasile, Cina ed India), grazie a poderosi investimenti in Ricerca e Sviluppo (circa 250 milioni di euro), ha messo a punto una esclusiva piattaforma tecnologica che consente di ottenere biocarburanti e numerosi intermedi chimici a partire da biomasse lignocellulosiche non alimentari. La tecnologia si è dimostrata valida su scala industriale, con un investimento di oltre 150 milioni di euro, nello stabilimento di Crescentino (Vercelli), primo impianto al mondo per la produzione di bioetanolo avanzato, con una capacità installata di 50 milioni di litri all’anno ed in grado di convertire residui agricoli e colture non alimentari (ad esempio, la canna comune). L’impianto di Crescentino riutilizza i sottoprodotti della trasformazione per alimentare una caldaia da 13 MW in grado di soddisfare le esigenze energetiche dell’impianto. Il bioetanolo prodotto consente di risparmiare oltre l’85 per cento delle emissioni rispetto alla benzina, sulla base del bilancio eseguito su tutto il ciclo (coltivazione della biomassa, trasporto, processo di produzione del biocarburante).
Con la stessa tecnologia nel prossimo futuro si sarà in grado di produrre, a partire dalle stesse biomasse, non solo bioetanolo ma anche tutta una serie di prodotti (bio)chimici secondo lo schema della bioraffineria e cioè secondo lo schema che prevede di generare una molteplicità di prodotti dalla stessa materia prima. Il tutto in una logica di valorizzazione dell’intera filiera, che va dal campo al prodotto, e di rispetto per l’ambiente, creando opportunità di reddito integrativo per il mondo agricolo grazie all’utilizzo di residui o di terreni abbandonati.
La realizzazione delle bioraffinerie favorirà quindi lo sviluppo della cosiddetta Chimica Verde, alternativa ma complementare alla tradizionale petrolchimica, e cioè una chimica da biomasse non alimentari. Ciò consentirà il rilancio della chimica nazionale, oggi in grave sofferenza, a causa sia dei crescenti costi delle materie prime che della maturità delle tecnologie utilizzate.
Le ricadute positive sul sistema Paese sono molteplici:
possibilità di affrancarsi anche parzialmente dall’import di greggio, con una stima di almeno il 25 per cento di riduzione della spesa dell’import energetico legato ai trasporti entro il 2030;
creazione di una filiera agroindustriale che possa rilanciare contemporaneamente sia il comparto agricolo che quello industriale nazionale, con l’opportunità di riconvertire poli chimici in crisi da anni e con la prospettiva di un mercato europeo del valore stimato al 2020 di oltre 200 miliardi di euro all’anno;
creazione di nuova occupazione qualificata lungo tutta la filiera su processi e prodotti ad elevato contenuto tecnologico ed eco-compatibili (in tal senso, si stima che oltre 1 milione di posti di lavoro possano essere creati in Europa entro il 2030);
supporto allo sviluppo rurale attraverso la valorizzazione di risorse agricole locali;
opportunità di utilizzare e valorizzare terreni abbandonati o inutilizzabili dall’agricoltura tradizionale o anche scarti agroforestali con evidenti molteplici vantaggi legati alla manutenzione delle aree verdi ed alla gestione dello smaltimento degli stessi scarti;
vantaggi ambientali in termini di emissioni di gas ad effetto serra grazie a processi che riducono fino all’85 per cento le emissioni di gas clima-alteranti;
grande opportunità di creare sinergie con la ricerca pubblica, anche attraverso il nuovo cluster della chimica verde, sulla base di tecnologie di avanguardia a livello mondiale.
Per cogliere queste opportunità il Governo Monti aveva siglato il Protocollo d’intesa con il Gruppo Mossi Ghisolfi; purtroppo, alcuni degli impegni presi all’epoca non hanno avuto seguito e si ritiene quindi urgente e necessario adottare adeguate misure a sostegno dello sviluppo delle bioraffinerie in Italia, quali:
un quadro normativo sui biocarburanti avanzati, coerente con le decisioni comunitarie, costituito da regole chiare e certe fino al 2030 per offrire un orizzonte chiaro ed un contesto stabile ai potenziali investitori;
una traiettoria crescente delle quote obbligatorie di miscelazione dei biocarburanti in modo da rendere certo lo scenario almeno fino al 2020;
obblighi di miscelazione separati per la filiera gasolio e per la filiera benzina come già avviene nella maggioranza dei Paesi Europei;
snellimento delle procedure amministrative relative al rilascio delle autorizzazioni per la realizzazione delle bioraffinerie;
una armonizzazione del sistema di accise gravanti sui biocarburanti che tenga conto dei benefici ambientali legati al loro uso; a tal proposito, si fa osservare come le accise gravanti sul bioetanolo pesano il 20 per cento in più di quelle gravanti sul biodiesel e 5 volte di più del GPL, senza alcuna giustificazione;
un chiaro impegno a sostegno della ricerca e formazione con investimenti mirati sulla chimica verde e concentrati su strutture selezionate, come, ad esempio, il cluster della chimica verde per consentire sinergie vincenti tra pubblico e privato.
Gruppo FIAT-Chrysler.
La documentazione inviata dal gruppo FIAT-Chrysler in merito allo stato e alle prospettive della green economy evidenzia che l’impegno del gruppo si basa sulla convinzione che non esiste un’unica soluzione per garantire i bisogni di mobilità nel rispetto dell’ambiente ma che è possibile ottenere risultati concreti solo affiancando tecnologie alternative a quelle convenzionali.
Nel sottolineare anzitutto l’indispensabile esigenza di contenere i consumi e le emissioni dei motori convenzionali (come dimostrano le nuove tecnologie MultiAir e TwinAir per i motori benzina e Multijet per i diesel), per quanto riguarda i combustibili e le trazioni alternative, la ricerca del gruppo Fiat spazia dal metano ai biocombustibili, ricercando anche soluzioni elettriche o ibride che siano accessibili economicamente e competitive sul mercato.
A tale proposito, pur sottolineando l’impegno del gruppo nell’attività di ricerca e sviluppo di veicoli ibridi, si evidenzia che il metano viene giudicato la scelta tecnologica più efficace e disponibile nell’immediato per risolvere i problemi di inquinamento delle aree urbane e per la riduzione delle emissioni di CO2. La tecnologia del metano, sulla quale Fiat investe da oltre quindici anni, risponde infatti perfettamente all’approccio del gruppo alla mobilità sostenibile che privilegia soluzioni concrete, disponibili e accessibili a tutti; evidenti sono d’altronde i benefici del metano per l’ambiente: dal 2013 al 2014, 500.000 autovetture a metano vendute dal gruppo Fiat, nell’arco della loro vita, hanno portato ad una minore emissione totale di 3,6 milioni di tonnellate di CO2.
Il metano, inoltre, ha le potenzialità per essere una fonte rinnovabile attraverso il biometano, un combustibile rinnovabile che presenta un elevato potenziale di sviluppo: si tratta di un gas ottenuto a partire da fonti rinnovabili, avente caratteristiche di utilizzo corrispondenti a quelle del gas metano e idoneo alla immissione nella rete del gas naturale, ovvero un biogas che ha subito un processo di purificazione e che può quindi essere utilizzato come biocombustibile nei veicoli a motore al pari del gas naturale.
Nel rilevare altresì che il biometano presenta per la sua produzione un’ampia disponibilità di materie prime e può quindi contribuire a ridurre la dipendenza dal petrolio, si sottolinea che tutti i motori Fiat a metano sono compatibili fin da subito al suo impiego e che in termini di emissioni di CO2 allo scarico il biometano emette circa il 23 per cento in meno rispetto alla benzina e che, considerato l’intero ciclo di vita del combustibile, i veicoli a biometano producono pressoché le stesse emissioni di CO2 di un veicolo elettrico alimentato con energia prodotta da fonti rinnovabili.
In conclusione, nel ribadire che il metano per autotrazione rappresenta una soluzione alla mobilità sostenibile immediatamente disponibile e usufruibile a costi vantaggiosi per l’utente finale, considerato altresì le grandi potenzialità di sviluppo dello stesso nell’utilizzo del biometano, si sottolinea infine l’esigenza di interventi urgenti per la definizione di un quadro normativo a livello nazionale ed europeo riguardante la filiera che si è sviluppata in tale comparto in Italia e che, ad oggi, vanta una leadership a livello mondiale.
3. 5. Soggetti istituzionali.
ANCI.
L’ANCI sottolinea che i temi dell’energia e delle città intelligenti sono fondamentali, ma anche che gli obiettivi europei del 20-20-20 sono praticabili se, oltre alla coerenza con una strategia, le amministrazioni hanno a disposizione strumenti e risorse. Occorre quindi, secondo l’ANCI, una modifica al patto di stabilità interno al fine di garantire che una quota (anche solo l’1 per cento del bilancio delle singole amministrazioni) possa essere investita nell’efficientamento energetico degli edifici (p.es. quelli scolastici). Ciò garantirebbe investimenti di risorse in conto capitale con benefici sia sulla spesa corrente sia sullo sviluppo economico, dato che i lavori impiegherebbero le imprese del territorio.
L’ANCI ha poi sottolineato l’importanza del tema della mobilità, che i comuni vorrebbero intelligente, e ricordato che il Governo ha ribadito l’importanza di investimenti di rilievo sul trasporto pubblico locale, che continuano, però, a non essere sufficienti.
L’ANCI ha inoltre evidenziato che i comuni vorrebbero stimolare anche il mercato dell’efficienza energetica sul patrimonio privato, ma non lo possono fare, perché non sono sufficientemente credibili (perché sono i primi ad avere un patrimonio edilizio particolarmente energivoro). Le ESCO inoltre, dovrebbero essere soggetti sufficientemente bancabili ma questo, purtroppo, non accade in Italia.
Secondo l’ANCI dal punto di vista teorico il sistema è perfetto e funziona, ma dal punto di vista concreto è impraticabile. Andrebbe poi introdotto il tema dell’efficienza energetica nell’ambito delle dismissioni degli immobili pubblici.
ANCI sottolinea che nelle città italiane sono molteplici gli sforzi in atto, che sono il risultato di anni di ingegneria e di creatività, per cui sarebbe sufficiente riuscire a garantire alcuni strumenti economici e finanziari per attivare una serie di opportunità che sono pronte a essere sviluppate e che rappresenterebbero un utile supporto a ipotesi di sviluppo economico dei territori.
Altri temi importanti per l’ANCI sono:
una revisione dei meccanismi di procurement che permetta agli enti locali un più agevole utilizzo di strumenti quali gli acquisti pubblici innovativi, il procurement pre-commerciale o il risksharingfacility;
il rafforzamento del ruolo del CIPU (Comitato Interministeriale per le Politiche Urbane), anche al fine di indirizzare l’utilizzo dei fondi strutturali dedicati allo sviluppo urbano da parte delle Regioni, consentendo di moltiplicarne l’effetto;
una revisione degli strumenti di programmazione territoriale con snellimento dell’iter di approvazione, per promuovere una filiera del recupero e del riciclo e pianificare l’impiantistica necessaria;
la definizione di un quadro omogeneo per l’affidamento dei servizi, oltre che l’introduzione di ecotasse anche ad altre filiere di prodotti, oltre a imballaggi e RAEE, secondo il principio comunitario del «chi inquina paga».
Ministro dell’istruzione, università e ricerca, Stefania Giannini.
L’audizione è stata particolarmente interessante e ha evidenziato, in modo quasi esemplare, la crescente consapevolezza, culturale e politica, dell’importanza dei temi legati allo sviluppo della green economy, come pure alcune incongruenze e lacune nell’azione di governo e significativi margini di miglioramento delle politiche a sostegno della green economy.
Sotto il primo profilo, a parte la singolare coincidenza di alcuni dati sottolineati in apertura di seduta sia dal presidente Realacci che dalla Ministra Giannini (entrambi, infatti, hanno evidenziato che nel 2013 il 42 per cento delle assunzioni dei ragazzi al di sotto dei trent’anni da parte delle aziende italiane si è avuto proprio nei settori che fanno investimenti cosiddetti green e che tale cifra raggiunge addirittura il 61 per cento, se guardiamo al settore cosiddetto R&D, cioè al settore che più propriamente ricomprende le attività di ricerca e sviluppo delle aziende italiane), l’audizione è stata l’occasione per sottolineare da parte della Ministra Giannini il carattere non settoriale ma «pervasivo» della green economy e delle politiche finalizzate a consentire «il passaggio ad un modello di sviluppo fondato su un uso sostenibile delle risorse naturali». In particolare, secondo la Ministra, per il raggiungimento di questo obiettivo necessario «occorre:
1) innovare e riqualificare i processi produttivi, mirando a ridurre gli impatti e ad aumentare l’efficienza nell’impiego delle risorse, anche al fine di conciliare sviluppo economico e aumento dell’occupazione, in particolare di quella giovanile e qualificata;
2) incentivare il rapporto tra sistema pubblico della ricerca, in particolare nei settori più legati alla green economy (energia, trasporti, ambiente) e sistema produttivo privato;
3) promuovere una cultura diffusa della responsabilità, perché un approccio sistematico allo sviluppo sostenibile, oltre che dalla dimensione economica, non può prescindere dalla dimensione sociale; in tal senso, tutti sono chiamati ad essere attori responsabili di una crescita intelligente, sostenibile, inclusiva: i cittadini, le imprese, le istituzioni e ultimo, ma certo non per importanza, il sistema nazionale della ricerca.».
«Noi abbiamo a che fare, in sostanza – ha aggiunto la Ministra – con un capitale naturale che deve essere messo a buon frutto sul piano industriale, … con una ricerca di base che [deve collegarsi] sempre più intimamente a questo tipo di sviluppo e di produzione industriale e con una diffusione culturale che deve permeare la società a tutti i livelli, anche al di fuori dei settori specialistici.».
«Questi – ha concluso la Ministra – sono i tre pilastri su cui lavorare e su cui il Ministero dell’istruzione è, direttamente o meno direttamente, coinvolto.».
Alla luce tali affermazioni, la Ministra è quindi passata ad illustrare lo «stato dell’arte» delle azioni di competenza del proprio dicastero a sostegno della green economy, con particolare riferimento agli aspetti relativi alla ricerca scientifica e tecnologica, per poi svolgere una presentazione delle possibili linee di intervento del MIUR, con particolare riguardo al Programma Nazionale per la Ricerca, al Programma Quadro per Ricerca Europea Horizon 2020 ed all’impiego dei Fondi Europei Strutturali e d’Investimento (ESIF).
Prima di dare conto sinteticamente degli interventi in atto e di quelli programmati, è peraltro importante dare conto del quadro culturale e politico di riferimento indicato dalla Ministra, secondo la quale «tradurre il quadro strategico della green economy in strumenti operativi richiede scelte di obiettivi concreti e misurabili che dipendono dal contesto geografico in cui le componenti economiche e socio-culturali giocano un ruolo di primo piano. Tuttavia – ha sottolineato la Ministra Giannini –, a nessuno sfugge la necessità impellente e prioritaria di interventi finanziari a sostegno della ricerca e della innovazione, al fine di implementare nuovi modelli di gestione delle risorse e delle filiere di produzione di beni e servizi che, per essere efficaci, devono essere comunicati in modo adeguato, perché la partecipazione delle comunità rappresenta un momento fondamentale tanto quanto la valutazione in termini di efficienza energetica e, più in generale, di impatto.».
Inoltre, ha proseguito la Ministra riferendosi ad un tema che, insieme alla green economy, in questa legislatura, è al centro dell’attività dell’VIII Commissione, «per ciò che concerne il capitale naturale è necessario comprendere più a fondo le capacità portanti di molti ecosistemi che forniscono beni e servizi alla società». In tal senso, ha sottolineando, in particolare, come sia quanto mai opportuno procedere in direzione di una piena valorizzazione dei cosiddetti «servizi ecosistemici» e della «messa in campo di politiche di recupero ambientale finalizzate a riparare i guasti del passato attraverso interventi attivi di restauro degli ecosistemi degradati», le quali – ha aggiunto – «hanno anche il merito di rappresentare opportunità di rilievo per creare occupazione in contesti rurali, con una serie ricadute economiche, sociali ed ambientali estremamente positive».
A conclusione di questa parte generale, di costruzione del quadro concettuale di riferimento delle politiche a sostegno della green economy, la Ministra ha giudicato fondamentale la messa in campo di una coerente «attività di ricerca e di innovazione in campo agrario, forestale, ambientale, marino, industriale» e la programmazione «di soluzioni economiche, legislative, tecnologiche e di istruzione pubblica per ridurre il consumo d’energia e di risorse naturali (anche in termini di razionalizzazione dell’uso di acqua, cibo, combustibili, metalli, ecc.), abbattere le emissioni di inquinanti e rifiuti (meno spreco e più riciclo) e gli associati danni ambientali, dando così attuazione a modelli di sviluppo in cui l’aumento dell’efficienza energetica e l’uso attento delle risorse naturali risultano temi centrali delle attività produttive».
Passando quindi all’illustrazione delle attività di competenza del MIUR e alla presentazione delle possibili linee di intervento del dicastero, la Ministra Giannini ha indicato tre campi di intervento prioritari.
Il primo è quello dell’aumento dell’efficienza nell’uso delle risorse naturali (energia, acqua, materie prime), con particolare riferimento, da un lato, al settore industriale della produzione di energia, che è responsabile di circa 2/3 delle emissioni di gas serra, e nel quale si richiede «uno spostamento degli investimenti dalle tecnologie tradizionali, basate sui combustibili fossili, alle energie rinnovabili», e, dall’altro, alle politiche per il risparmio e per l’efficienza energetica nell’intero sistema produttivo nazionale dove si richiede «un complessivo ripensamento di prodotti e processi produttivi, tendere verso “processi verdi” che prevedano un’estensione della vita utile dei prodotti, focalizzando l’attenzione sulla riparazione, il ricondizionamento e il riciclo, ponendo le basi per una produzione «a ciclo chiuso», idealmente senza consumo di energia/materia non rinnovabile».
Il secondo settore d’intervento «un settore decisivo su cui investire – secondo la Ministra Giannini – è quello delle aree urbane, che ospitano circa il 50 per cento della popolazione mondiale, ma sono responsabili di oltre il 60 per cento dei consumi energetici e di circa il 75 per cento delle emissioni di gas serra. In questo ambito – ha proseguito – occorre intervenire a diversi livelli: riqualificare gli edifici esistenti, riducendone i consumi e valorizzando il patrimonio storico; investire in tecniche di costruzione a basso consumo di risorse e garantire che i nuovi edifici siano a “emissioni zero”; ridurre i consumi nel settore dei trasporti, investendo non solo su sistemi di propulsione alternativi ma anche sul trasporto pubblico e non-motorizzato per le persone e sul trasporto ferroviario e marittimo per le merci».
Infine, il terzo settore d’intervento indicato dalla Ministra è quello della sostenibilità in agricoltura, dove è necessario promuovere politiche dirette a «migliorare la qualità degli ambienti e la base delle risorse naturali su cui l’agricoltura si fonda», nonché a «realizzare le condizioni economiche (di mercato e di politica) perché le imprese possano operare».
Quanto alle azioni concrete che il MIUR ha sostenuto nel settore cosiddetto della green economy, la Ministra ha anzitutto ricordato che tali azioni si collocano nell’ambito del Programma operativo nazionale Ricerca e Competitività (PONREC), cofinanziato attraverso sia risorse nazionali, sia fondi europei. In questo ambito, ha segnalato che nel settennio 2007-2013 sono stati finanziati 109 progetti in ambito energia, 66 dei quali finanziati direttamente e integramente dal MIUR, per un importo complessivo di poco più di 600 milioni di euro.
Proprio riferendo sugli interventi concreti del MIUR, tuttavia, come già accennato all’inizio, è emersa una prima criticità, specchio peraltro di una generale incapacità delle pubbliche amministrazioni di utilizzare in modo efficace ed efficiente le pur scarse risorse disponibili, emblematicamente rappresentata dal basso livello (61 per cento) di effettiva erogazione delle risorse disponibili per l’attuazione del PONREC. Su questo, la Ministra, nel riconoscere che effettivamente c’è un problema di «ritardo dei pagamenti da parte del MIUR», ha informato di avere creato una task force con il MEF «per accelerare, nei limiti del possibile, le procedure a dir poco farraginose».
La Ministra ha inoltre riferito che, oltre ai finanziamenti del PONREC, il MIUR ha anche destinato 266 milioni di euro, attraverso il Fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica (FIRST) destinato a università e ad enti pubblici di ricerca, alla realizzazione di 30 progetti vincitori dell’avviso pubblico per lo sviluppo e al potenziamento di 8 cluster tecnologici nazionali. Si tratta – ha aggiunto la Ministra – di cluster che affrontano, tutti, «temi chiave, cruciali per il settore dell’economia verde (fabbrica intelligente, chimica verde, mezzi e sistemi per la mobilità di superficie terrestre e marina, agrifood, tecnologie per le smart community e tecnologie per gli ambienti di vita)».
La Ministra ha altresì precisato che i soggetti coinvolti direttamente in questa parte della clusterizzazione FIRST sono 456: 112 appartengono al mondo della ricerca pubblica e 344 a quello della ricerca industriale. Tra questi ultimi, poi, 140 sono grandi imprese e 204 piccole e medie imprese, molte delle quali start-up.
Anche in questo caso, come abbiamo già detto con riferimento all’attuazione del PONREC, a testimonianza delle incongruenze organizzative e delle lacune in sede attuativa, la Ministra ha riferito della necessità di porre in essere azioni dirette, da un lato, ad «evitare sprechi» di risorse pubbliche e ancor più a scongiurare il rischio di «denari non impiegati» e, dall’altro, costruire strumenti di coordinamento tra i cluster, «in modo che ci possano essere addensamenti tematici, approfondimenti e, quindi, azioni anche di sistema che mettano più a capitale comune le iniziative che vengono prese».
Quanto alle linee di intervento del MIUR per il prossimo futuro, con particolare riguardo all’attuazione del nuovo Accordo di partenariato per l’utilizzo dei fondi europei strutturali e d’investimento (per il periodo 2014-2020) e, in particolare, del Programma Quadro per Ricerca Europea Horizon 2020, la Ministra Giannini ha sottolineato anzitutto che «nell’ambito della nuova programmazione dell’UE, la tematica trasversale della green economy ha uno spazio tutt’altro che irrilevante», se è vero che «il grande ambito della green economy attraversa quasi tutte le grandi sfide nei confronti delle quali l’Unione Europea chiede ai sistemi nazionali della ricerca e dell’innovazione di mobilitarsi, che si tratti di salute e benessere dei cittadini, di sicurezza alimentare, di bio-economia e qualità delle acque e dei mari, di energia sicura e pulita, di trasporto intelligente, di clima o di innovazione sociale».
In tal senso, la Ministra Giannini si è soffermata sui contenuti di alcuni obiettivi tematici contenuti nel citato Accordo di partenariato e in particolare sugli obiettivi OT1 (Rafforzare la ricerca, lo sviluppo tecnologico e l’innovazione), OT4 (Sostenere la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio in tutti i settori), OT8 (Promuovere l’occupazione sostenibile e di qualità e sostenere la mobilità dei lavoratori) e OT10 (Investire nell’istruzione, formazione e formazione professionale, per le competenze e l’apprendimento permanente) sottolineando, peraltro, come tale documento «prevede l’integrazione degli aspetti ambientali in tutti gli undici obiettivi tematici che sono stati identificati» e che «in ciascuna di queste scelte tematiche settoriali si dovrà esplicitare il possibile riferimento al macrotema della green economy».
Infine, l’audizione è stata l’occasione per approfondire alcuni contenuti del cosiddetto Piano di edilizia scolastica, fortemente voluto dal presidente del Consiglio fin dal suo discorso di fiducia alle Camere del 24 febbraio 2014. Si tratta, come è noto, di un piano che coinvolgerà complessivamente oltre 20.000 edifici scolastici, 4 milioni di studenti, che nelle intenzioni del Governo porterà, nell’arco del biennio 2014-2015, ad avere scuole più belle, più sicure e più nuove.
Pur nell’ambito di un generale apprezzamento per questa importante iniziativa del Governo, è emerso, tuttavia, che, almeno allo stato, nella progettazione dei bandi per la realizzazione degli interventi non sembrano essere stati previsti in via ordinaria, se non con riferimento alla costruzione di nuovi edifici, interventi per la riqualificazione energetica degli edifici e per la loro messa in sicurezza dal rischio sismico.
Su questo punto, che ancora una volta testimonia della frammentarietà delle politiche settoriali e delle incongruenze organizzative che purtroppo segnano negativamente l’azione delle pubbliche amministrazioni, l’audizione si è chiusa con una rinnovata sottolineatura dell’esigenza (peraltro, a più riprese, segnalata dalle Commissioni VIII e X della Camera, da ultimo in occasione dell’espressione dei prescritti pareri sullo schema di decreto legislativo per l’efficienza energetica) di procedere con urgenza all’individuazione di forme e strumenti di reale coordinamento degli interventi di efficientamento energetico (da programmare obbligatoriamente in applicazione della normativa europea) e di messa in sicurezza antisismica del patrimonio edilizio pubblico con il complesso delle misure già in via di attuazione, a partire proprio da quelle per la messa in sicurezza degli edifici scolastici.
Viceministro dello sviluppo economico, Claudio De Vincenti.
Nell’ambito dell’audizione tenuta innanzi alle commissioni riunite il Viceministro ha affermato innanzitutto come il tema della green economy rappresenti un tema trasversale ed integrato e come il concetto di green economy debba diventare una caratteristica dominante del funzionamento dell’intero sistema economico.
Sul piano definitorio è stato sottolineato come vi sia abbastanza consenso intorno alla seguente definizione di green economy: è l’economia che genera crescente prosperità salvaguardando il sistema naturale che la sostiene.
Lo strumento di transizione alla green economy consiste nell’abbandono dell’economia lineare a favore dell’economia circolare: nell’economia lineare, gran parte delle risorse viene persa nel percorso estrazione-produzione-consumo-rifiuto. Nell’economia circolare, invece, si utilizzano risorse rinnovabili e, inoltre, l’efficienza dei processi e le tecniche di recupero e riutilizzo consentono di ridurre al minimo il rifiuto. Dunque, il concetto di green economy poggia su alcuni assi portanti, tra i quali uso prioritario di risorse naturali rinnovabili, innovazione tecnologica continua, efficienza, recupero.
Le politiche per la green economy dovrebbero dunque includere misure per favorire la riduzione del contenuto di carbonio per unità di PIL, la riduzione del consumo di materie prime non rinnovabili e, più in generale, il miglioramento della qualità dell’ambiente e delle condizioni di vita e di lavoro, compresa l’accessibilità dei prezzi dei beni fondamentali, inclusa l’energia. Si tratta dunque non tanto di singole politiche settoriali ma di un complessivo approccio allo sviluppo.
È stato evidenziato altresì come il tema vada trattato a livello europeo e, per certi temi, nell’ambito di accordi internazionali: alcune misure potenzialmente utili per la green economy non possono infatti prescindere dal quadro e dai vincoli europei.
Le misure funzionali a ridurre o prevenire danni ambientali globali richiederebbero uno sforzo globale. L’esempio più evidente è costituito dalle politiche per le emissioni di gas serra, sulle quali l’Europa sta conducendo uno sforzo che potrebbe avere effetti di aumento dei prezzi nel solo continente, avvantaggiando le imprese di Paesi terzi e favorendo la delocalizzazione.
Per altri versi, ci sono temi sui quali un indirizzo dell’economia in senso green può essere, entro certi limiti, adottato autonomamente dal Paese, avendo riguardo alla propria struttura produttiva: è il caso, ad esempio, dell’agricoltura e dell’energia.
La grave crisi economica in corso da lungo tempo impone una diversa attenzione all’efficienza della spesa: vale per la spesa pubblica in senso stretto, vale per la bolletta energetica.
La Strategia energetica nazionale, in un quadro che tenta di contemperare le esigenze dell’oggi con gli obiettivi energetici e ambientali di medio e lungo termine, dà risposte soddisfacenti, sia perché, in materia di anidride carbonica, efficienza energetica e fonti rinnovabili, indica obiettivi più ambiziosi di quelli assunti a livello comunitario, sia perché promuove un futuro coerente con la roadmap 2050 prospettata a livello europeo.
Si tratta di combinare sostenibilità ambientale e sostenibilità economica. La Strategia energetica nazionale ruota intorno a queste due esigenze ed in sostanza ciò significa dare priorità alle politiche di efficienza della spesa nel senso dell’efficienza nell’uso delle risorse.
Occorre riconoscere, sotto questo profilo, che negli ultimi anni sono stati commessi molti errori, dal Governo, dal Parlamento e anche da alcune regioni: l’eccesso di incentivazione alle fonti rinnovabili, e in particolare al fotovoltaico, ha causato un repentino aumento degli oneri di sistema per il sostegno a tali fonti, passati da circa 1,5 miliardi di euro l’anno nel 2008 a 12 miliardi stimati per quest’anno, che incidono per oltre il 20 per cento sulla bolletta elettrica.
Per un verso quanto accaduto ha accelerato il percorso del Paese verso la riduzione del tasso di carbonio del ciclo energetico, ma certamente la rapidità con la quale il fenomeno si è verificato ha lasciato strascichi assai negativi, per il settore energetico e non solo: difficoltà del termoelettrico, aumento dei costi di gestione in sicurezza del sistema, un processo di diffusione sostenuto da sviluppatori e «imprenditori» spregiudicati, talora arricchitisi per la sola capacità di presentare dubbie pratiche di autorizzazione o di lucrare su prezzi dei componenti e dei servizi artatamente elevati, grazie all’eccesso degli incentivi. Né sono migliorate le condizioni di molte imprese del settore fotovoltaico, alcune delle quali dimensionatesi su tassi di sviluppo del settore assolutamente non sostenibili (oltre 9000 MW installati nel 2011).
Non sono estranei a questi errori le politiche europee in materia di clima ed energia – o, meglio, le modalità con le quali sono attuate – in larga misura intese a promuovere la domanda di prodotti e tecnologie. Pern quanto riguarda il fotovoltaico in Italia la spesa annua di incentivazione è passata da 0,1 miliardi di euro l’anno nel 2008 a 6,5 miliardi di euro l’anno nel 2012. Nello stesso periodo, la quota di mercato di moduli fotovoltaici prodotti in Europa è rimasta costante, mentre è raddoppiata quella dei moduli prodotti in Paesi extra UE.
Occorre quindi chiedersi se, fermi restando gli obiettivi (che tuttavia vanno ripartiti in modo equo tra gli Stati membri), si possano immaginare strumenti più efficaci di quelli finora adottati. In particolare, vale la pena interrogarsi sull’opportunità di profondere, anche a livello comunitario, maggiori sforzi finanziari a sostegno dell’innovazione e dell’industria dei componenti (partendo da quella su cui l’Europa vanta ancora presidi importanti), anziché puntare esclusivamente sul sostegno alla domanda dei componenti, visti gli esiti di questo approccio.
Questi i temi di più stretta attualità emersi nell’ambito dell’audizione: gli elevati prezzi dell’energia elettrica e le politiche di sostegno alle rinnovabili, le misure per l’incremento dell’efficienza energetica e il dibattito europeo sul pacchetto clima energia al 2030.
Per quanto concerne i prezzi dell’elettricità, per le nostre imprese, in particolare le medie e piccole, il prezzo dell’elettricità è mediamente più elevato del 30 per cento rispetto ai prezzi praticati alle imprese in altri Paesi comunitari. Ciò ha un impatto molto negativo sulla competitività delle nostre imprese rispetto ai Paesi partner.
Per attenuare questo gap di prezzo sono necessarie diverse misure: alcune agiranno su leve e assetti di mercato e possono dare risultati nel medio termine, altre invece dovranno essere in grado di dare risultati in tempi brevi. L’emergenza della situazione economica e soprattutto occupazionale impone infatti interventi a efficacia immediata.
Per la definizione delle misure, il Governo ha in corso di definizione interventi su più voci di costo direttamente o indirettamente associabili a trattamenti di maggior «favore» oggi a vantaggio di singole categorie: su queste voci, è possibile recuperare maggiore efficienza e perseguire una maggiore equità ridistributiva fra chi, in questi anni, ha avuto di più e chi, invece, sta soffrendo gli effetti della crisi economica.
L’altro tema assai cruciale è quello dell’efficienza energetica: senza dubbio uno dei pilastri della green economy, peraltro prima priorità di intervento della Strategia energetica nazionale, in quanto ha il pregio di essere lo strumento più economico per l’abbattimento delle emissioni, con un ritorno sugli investimenti positivo per il Paese, di accrescere la sicurezza energetica e di ridurre il deficit della bilancia commerciale e, soprattutto, di stimolare la domanda in un mercato dove sono attive molte imprese italiane, alcune delle quali in posizione di leadership nel panorama internazionale.
L’Italia ha fissato un obiettivo di riduzione dei consumi di energia di 15,5 Mtep di energia finale al 2020 (20 Mtep in energia primaria), tra i più ambiziosi tra quelli previsti dagli altri Paesi dell’Unione Europea e ha attivato un pacchetto composito di strumenti di policy di tipo: regolatorio; economico (incentivi, detrazioni fiscali); abilitante (finanza; ricerca e sviluppo, comunicazione).
Riguardo agli strumenti regolatori, sono stati rafforzati gli standard minimi per la prestazione energetica degli edifici (per nuove costruzioni o i rifacimenti importanti), per le emissioni di CO2 dei veicoli (anche in recepimento di normative europee) e per l’insieme dei prodotti rientranti nel campo di azione della direttiva sull’Ecodesign.
In merito agli incentivi, il meccanismo dei certificati bianchi rappresenta lo strumento più efficace per promuovere l’efficienza energetica. Con il decreto di fine 2012, è stato avviato un percorso di progressivo potenziamento di questo strumento per renderlo più trasparente e accessibile alle imprese ed adeguarlo ai principi della nuova direttiva n. 27 del 2012 sull’efficienza energetica. Attraverso il meccanismo nel periodo 2006-2013 sono stati certificati risparmi per complessivi 17,6 milioni di tep. Il risparmio di energia nel 2013 è stato di 2,3 Mtep a fronte di un costo di circa 600 milioni di euro a valere sulle bollette ed un volume di investimenti stimato in 2 miliardi di euro. L’impatto del meccanismo sulla green economy è rilevante in quanto ha stimolato un mercato di tecnologie ad alta efficienza per la sostituzione e/o l’ammodernamento di processi produttivi nell’industrie tipicamente energivore (acciaio, cemento, vetro, ceramica, carta, etc). Inoltre, ha consentito la nascita di numerose società per servizi energetici (ESCO) in grado di mettere a disposizione delle imprese competenze progettuali per individuare e realizzare progetti di efficienza energetica.
Un altro strumento incentivante è costituito dalle detrazioni fiscali per la riqualificazione energetica del patrimonio edilizio, introdotte nel 2007 e tuttora attive. Il totale degli interventi eseguiti (circa 1,5 milioni al 31 dicembre 2012), ha contribuito a generare un risparmio di energia finale pari 0,86 Mtep/anno. Gli investimenti sostenuti nel 2012 sono stati di circa 2,8 miliardi di euro di cui 1,58 portati in detrazione.
Il Conto termico, adottato con il decreto 28 dicembre 2012, è un nuovo sistema di incentivazione per interventi di incremento dell’efficienza energetica e di produzione di energia termica da fonti rinnovabili. Il Conto termico è operativo dal mese di luglio 2013 e si rivolge a due categorie di soggetti: Amministrazioni pubbliche e soggetti privati.
Per effetto del decreto di recepimento della direttiva 2012/27/UE sull’efficienza energetica approvato dal Consiglio dei Ministri, il mix degli strumenti messi in campo per il raggiungimento dei target di efficienza energetica 2020, sarà potenziato ed ampliato.
Ulteriore questione trattata riguarda la proposta europea su clima ed energia per il 2030, che sarà un importante dossier nel prossimo semestre, nel quale l’Italia assumerà la Presidenza. L’Italia intende innanzitutto lavorare affinché sia data piena attuazione all’orientamento espresso dal Consiglio dei Capi di Stato e di Governo di marzo scorso, il quale ha trattato, non casualmente insieme, il tema competitività industriale e la proposta comunitaria di obiettivi 2030 di riduzione dei gas serra. Nel documento conclusivo, il Consiglio ha affermato che una coerente politica europea su energia e clima deve assicurare prezzi accessibili, competitività industriale, sicurezza delle forniture e raggiungimento degli obiettivi ambientali.
L’accrescimento della competitività dell’industria europea, della quale quella italiana è un pilastro fondamentale, è al centro del dibattito europeo, al pari delle politiche in materia di clima ed energia. Occorre uno sforzo per assicurare che i due temi siano affrontati con coerenza e sinergia.
Il tradizionale approccio comunitario su clima ed energia implica forti politiche di sostegno alla domanda di tecnologie a basso contenuto di carbonio, e confida che tale domanda traini lo sviluppo industriale. Ribadisce quindi l’opportunità che l’Unione rafforzi l’impegno a sostegno diretto dell’innovazione di prodotti e processi, anche con progetti di dimensione europea sulle opzioni più promettenti, a vantaggio dei laboratori e delle industrie che fabbricano componenti per la produzione, la trasformazione e il consumo di energia.
Sempre in tema di strumenti, ritiene opportuno che sia stabilito un unico obiettivo al 2030, espresso in riduzione delle emissioni di gas serra. Al riguardo va lasciata agli Stati membri la flessibilità di decidere il mix che, nel proprio contesto economico e sociale, potrà ottimizzare il rapporto tra costi e benefici, anche con una programmazione nazionale degli interventi, nella quale sia ben specificato il ruolo di fonti rinnovabili ed efficienza energetica, in funzione delle loro particolarità geografiche, economiche-produttive, delle tecnologie migliori e più efficienti per raggiungere l’obiettivo complessivo della riduzione delle emissioni. Ogni Paese membro sarà tenuto a presentare un piano con misure specifiche sulle rinnovabili, sull’efficienza energetica, che chiariscano le modalità con cui l’obiettivo sulle emissioni verrà conseguito e che saranno sottoposte a monitoraggio e verifica da parte della Commissione, in base al suo potere di stimolare i singoli Paesi membri a conseguire gli obiettivi comuni.
Ultima questione, non per importanza è quella relativa alla questione di chi paga gli oneri della riduzione delle emissioni: il perseguimento degli ambiziosi obiettivi al 2030 comporterà dei costi, che si stanno valutando, per favorire le tecnologie e le opzioni in grado di ridurre il contenuto di carbonio del sistema energetico.
Correlate ai temi precedenti sono le politiche europee per la concorrenza interna all’Unione. Recentemente, la Commissione ha approvato le linee guida per gli aiuti di Stato in materia di ambiente ed energia. Queste linee guida mirano, per un verso, ad assicurare che le misure di sostegno siano efficaci e sostenibili per i consumatori, in particolare riconoscendo che alla progressiva maturazione tecnologica delle fonti rinnovabili deve corrispondere la loro integrazione nei mercati e la riduzione, fino all’azzeramento, degli incentivi.
Sarà inoltre uno dei temi centrali posti dalla presidenza italiana quello di come la politica industriale possa riportare la quota di PIL dell’industria al 20 per cento senza compromettere gli obiettivi ambientali, ossia come gli obiettivi ambientali che i paesi membri dell’Unione europea si sono dati al 2030 possano essere raggiunti senza compromettere l’obiettivo di politica industriale.
Ministro dell’ambiente e della tutela e del territorio e del mare Gian Luca Galletti.
Il Ministro dell’ambiente, Gianluca Galletti, nel rilevare che le politiche industriali non possono prescindere dalle politiche ambientali, ha sottolineato la proficua adozione di coraggiose scelte di politiche ambientali, adottate anche dai precedenti Governi, in particolare per quanto attiene alle misure in tema di clima ed energia, che pertanto sono risultate più avanzate rispetto ad altri Stati.
Nel considerare inoltre che la tutela dell’ambiente è ormai valore consolidato per la cittadinanza e per la classe imprenditoriale, ha altresì sottolineato l’importanza dell’obiettivo di rendere compatibili le politiche ambientali con le politiche industriali.
In relazione alla questione dell’Ilva, il Ministro ha rilevato la necessità che ci sia uno sforzo comune al fine di costruire la migliore azienda europea dal punto di vista ambientale e dal punto di vista produttivo.
Riguardo alla questione attinente al raggiungimento della riduzione di emissioni di CO2, ha precisato che l’obiettivo del Governo è di arrivare alla fine del semestre italiano di presidenza europeo, alla Conferenza di Lima, prevista per fine dicembre, raggiungendo un accordo tra tutti i Paesi per una riduzione del 40 per cento delle emissioni di CO2, suddivisa tra i vari Stati e un target di raggiungimento dell’efficienza energetica pari al 27 per cento. Tenuto conto peraltro dell’impatto che tali target hanno sulle strutture industriali di ogni Paese, risulta indispensabile l’adozione di politiche economiche di bilancio a sostegno del raggiungimento di tali target.
Relativamente alla normativa in itinere, il Ministro, da un lato, ha auspicato l’impegno da parte del Parlamento al fine di giungere ad una rapida approvazione del collegato ambientale, dall’altro ha sottolineato l’importante misura contenuta nell’articolo 5 della delega per il riordino del sistema fiscale, che deve rappresentare l’occasione per accorpare tutta la normativa fiscale relativa all’ambiente.
Per quanto attiene alla questione relativa alle perforazioni petrolifere, il Ministro ha ribadito il suo impegno nell’applicare con severità e rigore la normativa vigente in materia, posto che, se la valutazione di impatto ambientale risulterà positiva, non ci si potrà opporre all’opera di trivellazione ove corrisponda ai requisiti stabiliti dalla legge.
Ha inoltre precisato in merito al tema delle bonifiche l’impegno da parte del Governo all’attuazione di un forte controllo sulle stesse, anche nella prospettiva di introdurre semplificazioni al riguardo, considerato che occorre tener conto degli effetti negativi dal punto di vista economico e di impatto sociale sui territori interessati, senza comunque dimenticare le aziende dei territori interessati.
Occorre altresì intervenire con efficacia sull’emergenza relativa al dissesto idrogeologico, semplificando il sistema in modo da utilizzare le risorse disponibili in materia e mettendo in atto misure di prevenzione che determinerebbero un importante risparmio, in modo da portare avanti un piano nazionale di sistemazione del territorio finalizzato alla riduzione del rischio idrogeologico.
Sottosegretario per l’economia e le finanze, Legnini.
Per economia verde o green economy, costituisce ormai acquisizione definitiva sia su scala nazionale che internazionale, non si deve intendere un settore di nicchia della politica economica ma piuttosto un complesso di attività finalizzate a rioerentare la politica economica e produttiva complessiva di ciascun paese.
Tale definizione attinge a definizioni, decisioni ed orientamenti emersi anche in sede europea.
Innanzitutto l’UNEP (Programma ONU per l’ambiente) definisce economia verde quella che comporta «il miglioramento del benessere umano e dell’equità sociale, riducendo in modo significativo i rischi ambientali ed il consumo di risorse» (UNEP 2011).
Alla Conferenza di Rio del 2012 i Governi hanno sottolineato l’importanza di considerare la green economy come principio guida delle loro politiche di sviluppo.
Le politiche e gli strumenti di sostegno e sviluppo della green economy sono passati dall’essere considerati un vincolo all’essere visti come risorsa per un diverso modello di sviluppo, riorientando le scelte sia in ambito internazionale che europeo e nazionale.
La strategia «Europa 2020» riconosce esplicitamente la necessità di creare sinergia tra obiettivi economici e ambientali, e sostiene la transizione verso una «economia verde». Migliorare l’efficienza delle risorse è una pietra miliare in questa iniziativa, i cui obiettivi concreti si trovano nella «Roadmap verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse».
Sulla base di quest’approccio sistemico, finalizzato a suscitare un’evoluzione delle politiche economiche nella direzione della sostenibilità, il Governo italiano, considerando i contenuti noti della strategia Europa 2020, si è munito nel corso degli anni, da ultimo con il piano nazionale delle riforme, di una strategia, di una vera e propria agenda verde.
Promuovere un migliore utilizzo del capitale naturale, mediante un mix di politiche in grado di internalizzare le esternalità ambientali, consentirebbe di valorizzare alcuni settori strategici del nostro sistema produttivo – la filiera agroalimentare, il turismo, i servizi a elevato valore aggiunto e il sistema industriale nel suo complesso.
L’obiettivo di tale strategia è la piena affermazione di un modello di sviluppo sostenibile e inclusivo in grado di prevenire il degrado ambientale, il depauperamento del capitale naturale, la perdita di biodiversità e di utilizzare in modo efficiente le risorse naturali, creando al tempo stesso nuova occupazione. L’uso efficiente delle risorse risponde alla duplice necessità di stimolare la crescita e assicurare che questa avvenga in modo sostenibile.
La strategia del Governo, ampiamente descritte nel Piano nazionale di riforma approvato dal Governo ad aprile e promosso a Bruxelles all’inizio di questo mese, si muove in linea con il «Collegato ambientale alla legge di stabilità 2014» («Agenda Verde»), tutt’ora all’esame del Parlamento, con le azioni di salvaguardia del territorio e del paesaggio, tra cui in primis il DDL sul contenimento dell’uso del suolo e riuso del suolo edificato, con quelle sul risparmio e l’efficienza energetica, che costituisce la prima priorità della Strategia Energetica Nazionale, fino al recepimento da parte del Governo della direttiva efficienza energetica.
In questo quadro complessivo per quel che riguarda le competenze proprie del Ministero dell’economia e delle finanze e, più in generale, per la strategia nazionale all’interno del pacchetto 2020, assume rilievo il tema della fiscalità ambientale o della fiscalità energetica.
In Italia, le tasse ambientali coincidono largamente con le tasse sui prodotti energetici, che costituiscono il 2,3 per cento del prodotto interno lordo, dato riferito al 2012, e le tasse sui veicoli, che costituiscono lo 0,7 per cento del PIL, oltre alle tasse sull’inquinamento da emissioni, sui conferimenti in discarica, parzialmente riferite a livello locale.
Gli obiettivi per la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio sono stati definiti a livello comunitario mediante il pacchetto clima energia («Pacchetto 2020») e inglobati nella strategia «Europa 2020» per rilanciare l’economia dell’Unione.
Nell’aprile 2011 la Commissione europea ha presentato una proposta di modifica della direttiva 2003 con il duplice obiettivo di razionalizzare la tassazione del valore energetico dei combustibili e, in particolare, di introdurre una componente che valorizzi le esternalità negative legate alle emissioni di carbonio, da un lato, e di coordinare la tassazione energetica con il sistema EU ETS, dall’altro, in modo che i livelli di imposizione riflettano uniformemente per tutte le diverse fonti di energia sia le emissioni di CO2 sia il potere calorifero netto.
In coerenza con le raccomandazioni della Commissione europea, l’articolo 15 della delega fiscale (approvata dal parlamento nel marzo 2014) prevede nuove forme di prelievo finalizzate a preservare e a garantire l’equilibrio ambientale, assicurandone la compatibilità con lo sviluppo sostenibile in linea con la strategia «Europa 2020» di riduzione delle emissioni inquinanti e il coordinamento con i principi della proposta di modifica della direttiva sui prodotti energetici attualmente in discussione in sede comunitaria.
In linea con questi indirizzi, la delega prevede nuove forme di fiscalità (green taxes) che, compatibilmente con i principi di neutralità fiscale, siano finalizzate ad incoraggiare comportamenti virtuosi in materia di tutela ambientale e a penalizzare, nel contempo, l’impiego di prodotti più dannosi.
L’altra misura incentivante che è stata illustrata e definita rilevante ai fini di una politica economica e fiscale ecosostenibile è quella che riguarda le misure di efficienza energetica degli edifici, il c.d. Ecobonus.
Con la Legge di Stabilità per il 2014 è stato prorogato «l’Ecobonus», aumentando l’agevolazione, che consiste in detrazioni dall’Irpef o dall’Ires, nella misura del 65 per cento per le spese sostenute dal 6 giugno 2013 al 31 dicembre 2014. La detrazione è invece pari al 50 per cento per le spese che saranno effettuate nel 2015. Per le parti comuni degli edifici condominiali, la detrazione sarà del 65 per cento fino al 30 giugno 2015; poi per un anno ancora, fino al 30 giugno 2016, si abbasserà al 50 per cento. Dal primo gennaio 2016, invece, per le abitazioni indipendenti (per i condomini dal primo luglio 2016) la detrazione sarà prevista nella misura del 36 per cento.
In prospettiva si pone il tema della estensione a regime di tali agevolazioni, compatibilmente con il reperimento delle risorse finanziarie necessarie, ed in considerazione del carattere anticiclico della misura stessa sugli investimenti privati nel settore dell’edilizia.
Per quanto riguarda il tema Europa 2020 è stato evidenziato come agli impegni assunti dal nostro Paese con la ratifica del protocollo di Kyoto e il recepimento nel nostro ordinamento del pacchetto clima-energia nel quadro della strategia Europa 2020, hanno fatto seguito interventi urgenti in favore dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili.
Tali misure, pur avendo permesso sostanziali miglioramenti del profilo emissivo del Paese, necessitano di essere ulteriormente rafforzati per raggiungere gli obiettivi del cosiddetto Pacchetto 20-20-20. Nel contesto del controllo delle emissioni inquinanti si inserisce anche il sistema europeo di scambio dei permessi di inquinamento negoziabili – l’Emission Trading System – uno strumento armonizzato a livello europeo, in prospettiva in grado di contenere le emissioni di gas serra del settore termoelettrico e dei settori industriali, limitando le disparità di trattamento tra imprese dello stesso settore di paesi diversi. Si evidenzia che le misure già adottate, in corso o previste per aumentare la quota delle fonti di energia rinnovabile e il risparmio energetico dovrebbero consentire il raggiungimento e in alcuni casi il superamento degli obiettivi nazionali fissati per l’Italia.
Sul tema del dissesto idrogeologico e della difesa del suolo il Paese deve inoltre valorizzare le straordinarie risorse di cui dispone: l’ambiente, il territorio, il patrimonio agroalimentare. Questo significa scommettere sulle opportunità offerte dall’economia verde e prestare un’attenzione costante e sempre maggiore alle fragilità che caratterizzano il territorio, a partire dai rischi prodotti dal dissesto idrogeologico. Perciò il Governo con il PNR 2014 ha programmato le unità di missione per accelerare le procedure relative alla realizzazione degli interventi contro il dissesto idrogeologico e la tutela del territorio con nuovi stanziamenti per 1,5 miliardi.
Altro snodo cruciale della politica del Governo italiano riguarda la nuova programmazione dei fondi strutturali 2014-2020 che quella del fondo di sviluppo e coesione, nell’ambito dei quali vi sono almeno quattro obiettivi tematici che hanno un’incidenza e un’influenza diretta in quanto finalizzati a conseguire gli obiettivi dello sviluppo dell’economia verde.
Si tratta in particolare dell’obiettivo del trasporto urbano sostenibile, di quello del cambiamento climatico, dell’obiettivo relativo alla prevenzione e gestione dei rischi, alla gestione dei rifiuti e all’eliminazione delle strozzature delle infrastrutture di rete, per citare i più rilevanti.
Nel corso dell’audizione è stato, infine, sottolineato come durante l’importante impegno della Presidenza di turno dell’Unione europea, che l’Italia sarà chiamata a svolgere il nostro Paese avrà a disposizione una preziosa occasione per affrontare in maniera condivisa e coerente i temi della green economy, incluso quello e, in particolare, della fiscalità ambientale. Altri temi prioritari della Presidenza italiana riguarderanno il pacchetto clima energia per il post 2020 (con la riforma del sistema europeo di emission trading (ETS) a sostegno della riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra quale elemento qualificante); la maggiore integrazione delle priorità ambientali nel semestre europeo in un’ottica di promuovere le sinergie con la crescita economica; infine, la protezione della biodiversità e dei servizi resi dal sistema ecologico che occupa un ruolo di primo piano nelle priorità ambientali della Presidenza italiana.
Sottosegretario di Stato per il lavoro e le politiche sociali Luigi Bobba.
Secondo il Sottosegretario per il lavoro e le politiche sociali la crescita verde costituisce ormai un elemento di riferimento per le strategie di policy della maggior parte delle economie avanzate; se l’obiettivo è quello di continuare a innalzare i livelli di benessere e salute della popolazione, infatti, il perseguimento di una crescita eco-compatibile rappresenta una scelta ineluttabile.
L’Unione europea ha in tal senso ampiamente inglobato nella sua strategia di crescita l’attenzione verso l’ambiente, puntando verso una crescita a bassa emissione di CO2, stimolando l’efficienza energetica e promuovendo lo sviluppo delle fonti rinnovabili per l’approvvigionamento di energia elettrica.
Altrettanto evidenti sono gli sforzi compiuti dal G7 e dalle Nazioni Unite per trovare un consenso sull’obiettivo del contenimento delle emissioni nocive per l’ambiente e la transizione verso un’economia che faccia un uso più attento ed efficiente delle risorse. Non a caso, la stessa Unione europea ha affermato che la sfida degli anni futuri è per un’economia che sia insieme intelligente, sostenibile e competitiva.
I benefìci di una rapida transizione verso una green economy sono notevoli. L’OCSE ha stimato in 9 milioni il numero di decessi che si potrebbero evitare in tutto il mondo riducendo l’inquinamento dell’aria, delle falde acquifere, decessi che colpiscono prevalentemente i bambini con meno di 5 anni. In termini economici, per citare un solo esempio, sono stimati in 112.000 miliardi di dollari i risparmi complessivi derivanti dal ricorso a fonti di energia diverse dal carbone.
Occorre promuovere e sviluppare politiche energetiche in grado di accompagnare la transizione, valutare l’introduzione di incentivi e disincentivi fiscali in grado di accelerare la transizione verso un uso delle risorse più efficiente e compatibile con l’ambiente e, infine, prevenire i possibili disagi associati a una trasformazione del mondo e del mercato del lavoro che vedrà a mano a mano diventare obsolete determinate tipologie di produzione e di competenze per sostituirle con altre e rendere così la crescita verde un fenomeno inclusivo.
In tal senso, va parimenti ribadito l’enorme potenziale in termini occupazionali di un passaggio verso la green economy.
Anche se non è semplice quantificare l’evoluzione dei cosiddetti greenjobs, gli studi della Commissione europea sull’argomento hanno evidenziato come durante il periodo di crisi, gli ultimi 7 anni, l’occupazione nel settore della produzione di beni e servizi ambientali sia cresciuta del 20 per cento, arrivando quasi a 4,5 milioni di posti di lavoro.
Per quanto riguarda l’Italia, dal rapporto di Green Italy 2013 presentato da Unioncamere e Fondazione Symbola si evince come sia cresciuto negli ultimi anni il numero di imprese che investono in tecnologie green destinate a ridurre l’impatto ambientale e a risparmiare energia e come da tali imprese nasca una forte domanda di competenze giovani e innovative.
Dall’inizio della crisi a oggi, più di un’impresa su 5 ha scommesso proprio sulla green economy.
Va considerato, inoltre, che attualmente nella nostra economia gli occupati verdi, i cosiddetti green jobs, sono più di 3 milioni. Accanto a questi vanno considerate altre 3 milioni 700.000 figure attivabili proprio dalla green economy, cioè soggetti già regolarmente occupati che possono essere impegnati a lavorare in settori e filiere green.
Dal 2008 a oggi, anche senza tener conto dell’agricoltura, 328.000 aziende italiane dell’industria dei servizi con almeno un dipendente hanno investito o lo faranno quest’anno in tecnologie green per ridurre l’impatto ambientale e risparmiare energia. Si tratta di più del 20 per cento di tutte le imprese nazionali.
Dunque, la green economy rappresenta un terreno sul quale costruire le basi per una ripresa sia della produttività sia della competitività esterna del nostro Paese, indicata come il vero fattore di crescita. Sappiamo, infatti, che l’espressione green job non si limita a indicare quei lavori direttamente collegati alla produzione di beni e servizi ecocompatibili.
Nella definizione adottata dall’ILO (International Labour Organization), i lavori verdi sono tutte quelle occupazioni che contribuiscono a salvaguardare, recuperare o migliorare la qualità dell’economia, ovvero tutti quei lavori che contribuiscono a ridurre l’impatto ambientale delle attività di impresa attraverso la riduzione dei consumi di energia, materie prime e acqua, la riduzione di emissioni di carbonio e gas serra, la minimizzazione o la riduzione di tutte le forme di inquinamento, la protezione o la rigenerazione degli ecosistemi e della biodiversità.
Un caso emblematico di come la green economy possa generare occupazione nei settori tradizionali e imprese di piccola dimensione è quello degli sgravi fiscali associati alla riqualificazione energetica e alla ristrutturazione edilizia da parte delle famiglie.
Questi cambiamenti hanno generato anche l’emergere di nuove figure professionali particolarmente innovative e collegate allo sviluppo della green economy. L’ISFOL, l’Istituto di ricerca vigilato e controllato dal Ministero del lavoro, ha individuato quelle prioritarie e principali, come l’esperto economico-finanziario di interventi in campo energetico-ambientale, l’esperto di interventi energetici sostenibili a livello territoriale, il promotore consulente di materiali edili a basso impatto ambientale, l’esperto di qualificazione in campo energetico e ambientale delle imprese edili, tutte figure che in qualche modo dicono come il campo professionale e lavorativo collegato alla green economy sia interessato da profonde innovazioni, sia nelle competenze sia nelle configurazioni dei sentieri professionali delle persone che vi lavorano.
Nell’ambito, ancora, della filiera corta agroalimentare ed ecosostenibile sono state individuate, in particolare, tre nuove figure professionali: l’esperto in programmazione e pianificazione dei processi produttivi a filiera corta, il responsabile della gestione ambientale e qualità, il tecnico dei processi produttivi a filiera corta.
Le politiche fiscali, quelle industriali, quelle energetiche e quelle del lavoro, qui particolarmente evidenziate, devono avere un’unica direzione, in modo da far sì che gli investimenti in tecnologie ecocompatibili possano, da un lato, disincentivare le attività con forte impatto ambientale e, dall’altro, promuovere conoscenze e competenze nuove nelle imprese e tra i lavoratori. Le politiche del lavoro hanno, quindi, un peso particolare nel gestire la transizione dell’economia verde, ma la loro efficacia dipende da come e quanto esse riusciranno a integrarsi in un disegno strategico più ampio.
In particolare, le politiche devono essere ispirate a tre criteri nel governo del mercato del lavoro: vedere come riuscire ad anticipare e prevenire i mismatch che possono generarsi tra domanda e offerta di competenze necessarie proprio dentro questa transizione; gestire l’inevitabile ristrutturazione connessa al progressivo abbandono di produzioni ad alto consumo energetico verso forme di produzione più efficienti e a bassa emissione di CO2; come facilitare la creazione di nuovi posti di lavoro.
I settori innovativi necessitano di un sufficiente apporto di capitale umano principalmente, ma non esclusivamente, dotato di competenze in ambito scientifico, tecnologico, ingegneristico e matematico. Occorre, quindi, colmare in tempi rapidi quel gap che vede l’Italia come uno dei Paesi con la minore incidenza di lavoratori laureati anche tra i giovani.
L’ISFOL ha osservato che, in quest’ultimo decennio, c’è stato uno sviluppo nel campo della formazione universitaria, quello delle lauree triennali, un particolare sviluppo delle lauree cosiddette verdi, a indirizzo ambientale. Indagini successive hanno verificato una buona potenzialità occupazionale dei giovani che hanno scelto queste tipologie di lauree, con più della metà dei giovani che si sono occupati nei primi 3 anni.
In secondo luogo, questi giovani hanno avuto particolare soddisfazione, ossia hanno trovato una coerenza tra il percorso formativo e lo sviluppo professionale che hanno poi intrapreso.
In terzo luogo, nel tipo di occupazione e remunerazione, non si tratta di occupazioni precarie o incerte, ma fondamentalmente di lavori dipendenti a tempo indeterminato.
Altro campo sempre riguardante la formazione, si è avuta un’offerta formativa abbastanza ben distribuita sul territorio anche sul versante di prima formazione professionale o di formazione professionale specializzata. Tutto questo ha avuto un incremento particolare fino al 2010. Successivamente, invece, c’è stata una riduzione di quest’offerta dovuta a un fattore esogeno, nel senso che buona parte delle risorse anche derivanti dal fondo sociale europeo in capo alle regioni è stata ridestinata a finanziare gli ammortizzatori sociali. Non solo questo settore della formazione professionale nell’area dei mestieri verdi, quindi, ha avuto un andamento decrescente, ma questo si è determinato anche in altri settori.
In questi ultimi anni, invece, dal 2010 in poi, la formazione ambientale è andata concentrandosi prevalentemente su azioni di formazione continua, di breve durata e di risposta alle domande provenienti dal mercato e dalle aziende, volte all’adeguamento delle normative ambientali vigenti, alla riqualificazione e ricollocazione lavorativa e all’esigenza di una riconversione sostenibile e di una diversificazione dei processi produttivi e dei servizi green offerti.
In buona sostanza, mentre tra il 2001 e il 2010 c’è stata un’offerta formativa pubblica consistente e variegata, peraltro distribuita su tutto il territorio nazionale, negli ultimi anni l’offerta di formazione ambientale si è concentrata su corsi di breve durata, sostanzialmente originati da domande delle aziende orientate ad adeguare le competenze dei propri lavoratori alle normative vigenti.
Infine, la formazione professionale può essere uno strumento complementare per gestire le ristrutturazioni del tessuto produttivo.
Sottosegretario per le politiche agricole, alimentari e forestali Giuseppe Castiglione.
Secondo il rappresentante del Ministero delle politiche agricole e forestali, rientra nella green economy la dimensione sostenibile dell’agricoltura che integra le risorse naturali locali e i processi biologici per ripristinare e migliorare la fertilità del suolo, favorire un uso più efficiente dell’acqua, aumentare la biodiversità delle colture e del patrimonio zootecnico, ridurre l’uso della chimica per la gestione di parassiti e infestanti e promuovere l’occupazione all’interno di aziende agricole di piccola scala.
L’agricoltura offre quindi importanti opportunità pratiche in termini di green economy, anche legate alla mitigazione degli effetti e all’adattamento ai cambiamenti climatici attraverso azioni di carbon sequestration e l’aumento della resilienza del suolo che, per la maggior parte, va attribuita alla presenza di una maggiore biodiversità.
In quest’ottica il Ministero delle politiche agricole ritiene che l’agricoltura dovrà essere sempre più orientata a conseguire: riduzione dell’emissione dell’anidride carbonica nell’aria ed aumento del contenuto di carbonio organico nel suolo, attraverso l’adozione di apposite tecniche colturali; diminuzione e razionalizzazione dei fattori necessari alla produzione agricola (acqua prodotti chimici); razionalizzazione del processo produttivo zootecnico e dell’uso delle macchine agricole; preferenza per processi produttivi a basso bilancio energetico; tutela della biodiversità vegetale ed animale.
Il rappresentante del ministero ha sottolineato quindi che la natura sostenibile dell’agricoltura come nuovo modello produttivo ha trovato collocazione anche all’interno del primo pilastro della Politica Agricola Comune, se si considera che, all’interno della nuova strutturazione dei pagamenti PAC, trova ampio spazio il pagamento per pratiche agricole benefiche per l’ambiente (mantenimento di prati e pascoli permanenti, oltre che delle colture arboree, presenza di isole ecologiche (Ecological Focus Area – EFA), ovvero di porzioni di superfici a seminativo sottratte alla produzione, dove è vietato l’uso di pesticidi e fortemente limitato l’utilizzo di fertilizzanti) alle quali è destinato il 30 per cento del massimale nazionale dei pagamenti diretti condizionato al rispetto di talune misure finalizzate alla resilienza ai cambiamenti climatici, al mantenimento della biodiversità, allo stoccaggio della CO2, alla conservazione del suolo. Anche le politiche del secondo pilastro prestano particolare attenzione alla sostenibilità ambientale delle attività agricole, visto che il totale della spesa pubblica, Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR) più il cofinanziamento, nel settennio 2014-2020, ammonterà complessivamente a circa 21 miliardi di euro, di cui il 38,8 per cento destinato a obiettivi di carattere ambientale, in particolare a misure dirette a orientare i comportamenti aziendali verso pratiche più sostenibili e con finalità multiple, quali la riduzione dell’uso delle risorse idriche e energetiche, il miglioramento della qualità dei suoli, il mantenimento del paesaggio rurale o lo stoccaggio di carbonio, pratiche che impegnano gli operatori agricoli oltre il dovuto, e che devono, pertanto, essere compensate.
Il rappresentante del Ministero delle politiche agricole ha poi concentrato la sua attenzione su uno dei comparti – emblema della green economy: le agro energie, e quindi la produzione di energia da biomasse e biogas utilizzando prevalentemente scarti e residui delle produzioni agricole e agro-alimentari, che hanno avuto un’enorme diffusione negli ultimi anni. Infatti più di mille degli impianti a biomasse e a biogas realizzati fino a febbraio del 2014 risultano di proprietà di imprese agricole, con un contributo al fatturato del settore pari a circa 2,5 miliardi di euro e con una stima in termini di occupazione di circa 1.600 occupati solamente per gli impianti di biogas, senza poi considerare l’intera filiera legno-energia che comprende 80 mila imprese per oltre 500 mila lavoratori.
Alla promozione delle agro energie è poi finalizzato il Decreto biometano del 5 dicembre 2013 che offre al settore agricolo opportunità di integrazione del reddito del tutto nuove in un settore fortemente innovativo.
Il rappresentante del Ministero delle Politiche Agricole ha evidenziato l’orientamento del Ministero a proseguire la promozione in tale settore favorendo la semplificazione delle procedure collegate alla gestione degli interventi agro energetici, l’effettiva attuazione del Decreto biometano, nonché il proseguimento degli interventi di efficienza energetica avviati con il decreto 6 luglio 2012 e con quello «conto termico» (interventi di efficienza energetica), anche al fine di evitare la sperequazione territoriale che ha accompagnato la crescita delle fonti rinnovabili in ambito agricolo, particolarmente concentrate nel Nord-Italia, mentre anche le Regioni meridionali offrono un notevole potenziale di biomasse da valorizzare.
In tale prospettiva il Ministero Politiche Agricole ha attivato il Tavolo di filiera per le bioenergie al quale partecipano tutti gli attori della filiera e delle amministrazioni centrali e locali, con il compito di arrivare a un Piano di settore che prevede come azioni prioritarie: un ruolo centrale dell’agricoltura per lo sviluppo delle energie rinnovabili, interventi per la ricerca e l’innovazione, maggior diffusione di attività di formazione e informazione, efficienza energetica, sviluppo sostenibile delle energie rinnovabili e bioraffinerie con la previsione di attivare un tavolo specifico per la chimica verde.
Il rappresentante del Ministero delle politiche agricole ha concluso evidenziando come la crescita di produzioni basate sulla chimica verde costituisce la nuova frontiera di sviluppo strettamente collegata alle produzioni agricole e in particolare alla valorizzazione dei sottoprodotti e dei residui ma anche di colture che non contrastino con quelle a finalità alimentare, anche grazie alla re-introduzione di pratiche di avvicendamento colturale. In tale prospettiva occorrerà abbattere gli attuali costi eccessivi dei bioprodotti per le basse rese di processo, valorizzando quindi tutti i coprodotti e scarti generati nelle differenti fasi del ciclo produttivo, includendo anche una destinazione energetica dei residui finali, sanza comunque dimenticare la necessità di semplificazione degli iter burocratici/amministrativi per la realizzazione degli impianti, l’esigenza di maggiore chiarezza normativa che aiuti i consumatori e produttori ad orientarsi nella difficile «lettura» delle loro scelte di consumo e il riconoscimento del valore sociale ed ambientale dell’innovazione che viene immessa sul mercato, senza che questo comporti necessariamente incentivi economici specifici.
4. Considerazioni conclusive.
È ormai opinione largamente condivisa che l’attuale crisi non sia soltanto economica e finanziaria ma anche ambientale e molti ritengono che questa in generale ponga la necessità di riconsiderare il tradizionale modello economico.
Quest’ultimo, imperniato sulla cosiddetta «brown economy», si è di fatto basato sullo sfruttamento di risorse naturali, a lungo ritenute infinite, e sulla scarsa attenzione agli impatti delle attività antropiche su ambiente, società e qualità della vita.
Al contrario la «green economy» non solo riconosce i limiti del pianeta, ma li rimarca come confini all’interno dei quali deve muoversi il nuovo modello economico basato su un uso sostenibile delle risorse ed una riduzione drastica degli impatti ambientali e sociali, ai fini di un miglioramento generalizzato della qualità della vita. In questo senso, la green economy si configura come un nuovo modello economico tout court e non può e non deve essere considerata semplicemente come la parte «verde» dell’economia.
Nel panorama internazionale, numerose sono le definizioni di green economy e le strategie e road maps di cui si sono dotati i vari organismi internazionali e sovranazionali. Le diverse definizioni concordano sostanzialmente sul fatto che la green economy punta a migliorare la qualità della vita di tutto il genere umano, riducendo le disuguaglianze nel lungo termine, e non esponendo le generazioni future ai preoccupanti rischi ambientali e a significative scarsità ecologiche. E anche se l’OCSE parla di crescita verde, e non di economia verde, è opinione sempre più diffusa che queste definizioni non solo non debbano essere messe in contrapposizione l’una con l’altra, ma che «crescita verde» e «economia verde» vadano anzi essenzialmente nella stessa direzione. È giusto precisare anche che la definizione di green economy (o green growth) non sostituisce quella di sviluppo sostenibile, ma ne diviene un necessario passaggio: la sostenibilità rimane un fondamentale obiettivo a lungo termine, ma per arrivarci bisogna lavorare verso un’economia verde. In questo senso la green economy è il mezzo e il fine di se stessa, poiché come strumento (e quindi il mezzo) attuativo dello sviluppo sostenibile diventa una «fase di transizione», la via per gestire il cambiamento verso un modello di sviluppo sostenibile e, allo stesso tempo, conduce ad un nuovo modello economico (e quindi il fine) stabilmente sostenibile. Per compiere tale transizione, occorre che vi siano delle specifiche condizioni quali regolamenti nazionali specifici, politiche ad hoc, sovvenzioni e incentivi di sostegno, investimenti che ridefiniscano in modo profondo il tessuto istituzionale internazionale con una nuova governance globale.
Un’economia verde riconosce, tutela e investe nel capitale naturale, considerando la biodiversità come il tessuto vivente proprio di questo pianeta, che è imprescindibile per il benessere umano e fornisce le economie di risorse preziose sotto forma di servizi elargiti gratuitamente. Questo cosiddetto «ecosistema di servizi» è rappresentato principalmente in natura da beni comuni che sono invisibili economicamente e, per questo, sottovalutati, mal gestiti e a rischio di speculazioni che non hanno certamente l’obiettivo di conservarli.
Una giusta economia, in questo caso davvero verde, considera il valore inestimabile degli ecosistemi e si pone come obiettivo il raggiungimento di un equilibrio tra la loro preservazione per le future generazioni e lo svolgimento delle attività umane.
Risorse naturali come foreste, laghi, zone umide e bacini fluviali sono componenti essenziali del capitale naturale ed assicurano la stabilità del ciclo dell’acqua e dei suoi benefici per l’agricoltura e per le famiglie, il ciclo del carbonio e il suo ruolo nella mitigazione del clima, la fertilità del suolo e il suo valore per la produzione delle colture, i microclimi locali per gli habitat.
Alcuni paesi hanno raggiunto livelli elevati di sviluppo umano, ma spesso a scapito del loro capitale naturale e della loro qualità ambientale, pregiudicata molto spesso dalle alte emissioni di gas serra. La sfida per questi paesi è quella di ridurre la loro impronta ecologica senza compromettere il proprio benessere. Altri paesi mantengono ancora relativamente bassa l’impronta ecologica, ma hanno bisogno di migliori livelli di benessere. La loro sfida è quella di riuscirvi senza aumentare drasticamente la propria impronta ecologica.
La definizione di green economy per l’UNEP (il Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite) scaturisce da un’approfondita analisi, non solo economica, che tiene in debito conto tutte le risorse naturali da cui la specie umana trae beneficio senza alcun compenso corrisposto. L’analisi praticamente si basa su una equa considerazione economica del capitale naturale nel suo complesso, unico modo per compensare i paesi in difficoltà, che pur ricchi di materie prime sono ben lontani dal raggiungere i livelli di benessere dei paesi industrializzati. L’UNEP traccia un manifesto ben preciso per l’attuazione di un’economia verde e lo fa attraverso l’indicazione di investimenti verdi sostanzialmente indirizzati in due ambiti fondamentali: l’approvvigionamento e l’utilizzo sostenibile del capitale naturale e dell’energia.
Questi due ambiti vengono poi declinati attraverso 11 elementi chiave di un modello di sviluppo sostenibile afferente in parte alla sfera del capitale naturale (foreste, acqua, agricoltura e pesca), in parte a quella dei settori produttivi (fonti rinnovabili, industria manifatturiera, produzione di rifiuti, edilizia, trasporti, turismo e città).
L’OCSE (l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) promuove la crescita verde, un modello di sviluppo in grado di garantire, anche alle generazioni future, le risorse e i servizi ambientali sui quali il nostro benessere si basa. La green growth affida un ruolo estremamente importante all’innovazione tecnologica, in grado di disaccoppiare la crescita dalla dipendenza di capitale naturale, unico «master driver» della transizione verso una green economy.
La crescita verde porterà nuove idee, nuovi imprenditori e nuovi modelli di business, contribuendo così alla creazione di nuovi mercati e, infine, alla creazione di nuovi posti di lavoro e di trasformazione industriale.
Imprese leader e imprenditori stanno esplorando le opportunità di business verde, a volte basate sul pensiero sistemico e su innovazioni radicali, con l’obiettivo di catturare e creare valore da nuovi modelli di business.
Il concetto di crescita verde ha il potenziale per affrontare le sfide economiche ed ambientali e per aprire nuovi percorsi di crescita attraverso diversi canali:
produttività: incentivi per una maggiore efficienza nell’utilizzo delle risorse e dei beni naturali che portino ad un miglioramento della produttività, riducendo il consumo di materia ed energia e rendendo le risorse disponibili al più alto valore d’uso;
innovazione: opportunità per l’innovazione, incentivata da politiche adeguate che consentano nuovi modi di affrontare i problemi ambientali;
nuovi mercati: creazione di nuovi mercati stimolando la domanda di nuove tecnologie, beni e servizi verdi, anche ai fini di creazione di nuove opportunità di lavoro;
fiducia: aumentare la fiducia degli investitori attraverso una maggiore prevedibilità riguardo alle modalità con cui i governi sono chiamati a rispondere alle principali questioni ambientali e stabilità delle decisioni prese;
stabilità: condizioni macroeconomiche più equilibrate, che riducano la volatilità dei prezzi delle risorse.
In linea con la strategia OCSE sull’innovazione si pone anche il piano d’azione dell’Unione Europea che considera il modello di business eco-innovativo fondamentale per la promozione di un’innovazione ecosostenibile.
L’UE vede la green economy come strumento per lo sviluppo sostenibile, e accoglie e sottolinea la compatibilità delle definizioni di green growth e green economy.
Nella road map europea le prime misure sono quelle inerenti le risorse e il capitale naturale: l’Unione Europea si sta impegnando a (1) favorire la creazione di partenariati internazionali per la gestione sostenibile della risorsa idrica e per estendere l’accesso all’energia, migliorando la sicurezza dell’approvvigionamento energetico e promuovendo le fonti rinnovabili e l’efficienza energetica; (2) tutelare l’ambiente marino e gli oceani invitando i paesi non ancora firmatari a ratificare la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS); (3) promuovere la sostenibilità dell’agricoltura, dell’uso del suolo e dell’approvvigionamento alimentare, costituendo, anche in questo ambito, parternariati internazionali; (4) combattere la deforestazione e promuovere la gestione sostenibile delle foreste. Inoltre l’UE individua la cooperazione scientifica e tecnologica come unica via per istituire un quadro internazionale di riferimento come soluzione ai problemi collettivi di portata planetaria quali i cambiamenti climatici, l’approvvigionamento di energia e materie prime, l’utilizzo di prodotti chimici e sostanze pericolose.
La strategia europea propone una finanza innovativa, supportata da incentivi, nella quale i nuovi strumenti di finanziamento giocano un ruolo innovatore delle politiche in settori quali ad esempio cambiamenti climatici e biodiversità, e un miglioramento della governance internazionale attraverso un rafforzamento delle strategie di sviluppo sostenibile, a cominciare dalle politiche per l’ambiente.
Accanto a questa visione di respiro globale che si fa carico di ripensare e riscrivere le compatibilità fra crescita, innovazione e qualità della vita, l’UE ha realizzato, in questi ultimi due decenni, politiche che, al proprio interno, hanno consentito di raggiungere obiettivi significativi di crescita e di rilancio dell’economia e dell’occupazione proprio attraverso la leva della green economy. Così l’Europa può raccontare dati e risultati assai importanti che collegano le politiche green con le nuove dinamiche del lavoro.
Ciò è accaduto recentemente (16-17 luglio 2014) durante l’incontro informale dei Ministri dell’Ambiente e del Lavoro dell’UE che si è svolto a Milano.
Nell’Unione Europea la crescita annuale dell’occupazione verde è stata del 2,7 per cento dal 2000 al 2008 ed è passata dai 2.400.000 posti di lavoro del 2000 ai 3.400.000 nel 2012. Risulta cioè evidente come agire per la sostenibilità, oltre a tutelare l’ambiente, aiuta l’occupazione.
Secondo l’analisi europea ogni riduzione di un punto percentuale nell’uso delle risorse porta dai 100.000 ai 200.000 nuovi posti di lavoro e questo potrebbe produrre 1.400.000-2.800.000 posti di lavoro entro il 2020.
Il Ministro dell’Ambiente italiano, Galletti, ha sottolineato che «le potenzialità occupazionali offerte dall’economia verde sono indiscutibili e il dato per noi più significativo contenuto nella Comunicazione europea è che con l’aumento della produttività delle risorse in Europa potrebbero essere creati più di 20 milioni di posti di lavoro fino al 2030». E poi ha aggiunto che: «la Comunicazione della Commissione Europea sui green jobs, pubblicata il 2 luglio scorso, conferma che fra il 2002 e il 2011 sono stati creati in Europa circa 4 milioni di “lavori verdi” e, di questi, circa un milione è stato creato fra il 2007 e il 2011, negli anni più duri della crisi economica».
Di fronte a questo quadro d’insieme che delinea i contorni e i contenuti di una nuova e possibile fase di crescita e di sviluppo a livello globale e europeo, l’Italia è chiamata non semplicemente a fare la propria parte ma a rilanciare i tratti della sua originalità proprio assumendo i criteri e i principi guida della green economy.
La crisi prolungata che l’Italia sta vivendo ha colpito pesantemente il tessuto produttivo delle PMI e, nello stesso tempo, ha cambiato e sta cambiando in profondità l’assetto e le proprietà delle grandi aziende e dei principali gruppi industriali. Questo processo di trasformazione del sistema imprenditoriale e industriale richiede una grande capacità di innovazione e lungimiranza nel ridisegnare una nuova missione del Paese per ciò che riguarda il cosa produrre e il come produrre con più alti livelli di sostenibilità economica, sociale e ambientale, capace di combattere il fenomeno crescente della disoccupazione, in particolare quella giovanile.
Naturalmente questa sfida non investe soltanto la dimensione dell’iniziativa privata ma la stessa capacità delle istituzioni di ripensare e riformare l’insieme della pubblica amministrazione che oggi non riesce a fornire servizi almeno pari ai suoi costi di mantenimento e costringe ad effettuare continui risparmi che finiscono per tagliare i servizi offerti ai cittadini.
Appare quindi ineludibile porre mano a riforme strutturali importanti e rapide senza le quali diventa irrealistica la possibilità di intraprendere una nuova fase di crescita e di benessere.
Non si tratta soltanto di riaccendere i motori dello sviluppo che si è inceppato ormai sei anni fa.
Occorre pensare e perseguire un nuovo modello che tragga la propria forza proprio dalla possibilità di mettere a sistema le straordinarie risorse di cui l’Italia dispone. Questo significa non solo ridefinire le giuste politiche economiche, ma costruire le condizioni affinché il Paese raccolga la sfida di un salto culturale e tecnologico capace di accompagnare la società verso la ripresa e, insieme, verso una nuova stagione di progresso.
Uno dei principali punti di forza dell’Italia è legato alla sua straordinaria ricchezza territoriale e persino, paradossalmente, alle sue «divisioni campanilistiche» che affondano le radici in epoca medievale e rinascimentale. Queste diversità hanno ottimizzato le culture locali, validamente supportate dalla varietà climatica presente nel paese, dando luogo a innumerevoli prodotti e «stili di vita». Ulteriormente le stratificazioni storiche hanno lasciato in eredità un immenso patrimonio archeologico, architettonico ed artistico tra i maggiori al mondo. Tali peculiarità lasciano intravedere la possibilità di applicare un nuovo modello sostenibile che, proprio da esse, trae forza propulsiva.
Si tratta di un modello originale che punta dritto al cuore della nostra identità e della nostra storia, perché sa combinare la crescita economica con la tutela delle migliori risorse del Paese: dalle competenze alla qualità della vita, dalle bellezze naturali e culturali alle relazioni sociali.
Un modello in grado di valorizzare la biodiversità, la tipicità e i saperi dei territori, le cui basi poggiano su quel patrimonio di imprenditorialità diffusa che, dalle imprese familiari al non profit, ha le sue radici nel territorio ma sa guardare al mondo.
Il percorso di riconversione in chiave green del sistema produttivo italiano deve passare, e sta passando, non solo attraverso il fattore «capitale», espresso dall’impegno delle imprese nell’investire in tecnologie green per ridurre l’impatto ambientale delle produzioni e trasferire un di più di competitività ai beni e servizi prodotti, ma anche attraverso quello del «lavoro», per mezzo della ricerca di figure professionali le cui competenze, se ben formate, sono in grado di imprimere all’impresa un salto di qualità verso la frontiera della green economy.
Di particolare interesse è la fotografia del Paese che emerge dal Rapporto 2013 «Green Italy. Nutrire il futuro» elaborato da Unioncamere e Fondazione Symbola che ricostruisce la forza e racconta le eccellenze della green economy nazionale.
Ciò che risulta evidente è che la green economy è un nuovo paradigma produttivo che esprime, nel nostro paese, la parte propulsiva dell’economia.
Infatti, dall’inizio della crisi, nonostante la necessità di stringere i cordoni della borsa, più di un’impresa su cinque ha scommesso sulla green economy. Che, quindi, è stata percepita come una risposta alla crisi stessa, e non ha deluso le aspettative.
Chi investe green è più forte all’estero: il 42 per cento delle imprese manifatturiere che fanno eco-investimenti esporta i propri prodotti, contro il 25,4 per cento di quelle che non lo fanno.
Green economy significa innovazione: il 30 per cento delle imprese del manifatturiero che investono in eco-efficienza ha effettuato innovazioni di prodotto o di servizi, contro il 16,8 per cento delle imprese non investitrici. E significa redditività: il 21,1 per cento delle imprese manifatturiere eco-investitrici ha visto crescere il proprio fatturato nel 2012, tra le non investitrici è successo solo nel 15,2 per cento dei casi.
Dalla green economy nazionale arrivano segnali positivi anche sul tema dell’occupazione giovanile: il 42 per cento del totale delle assunzioni under 30 programmate nel 2013 dalle imprese dell’industria e dei servizi con almeno un dipendente è stato fatto proprio da quel 22 per cento di aziende che hanno realizzato investimenti green. E anche sul fronte dei diritti, se guardiamo ai green jobs, tra le assunzioni a carattere non stagionale, l’incidenza delle assunzioni a tempo indeterminato è del 52 per cento, mentre scende al 40,5 per le figure non connesse al settore green.
Di fronte a questi dati è del tutto evidente che la green economy non è un settore dell’economia, ma un tracciante verde che percorre il sistema produttivo italiano e che, a ben guardare, delinea il ritratto più fedele del nuovo «Made in Italy».
Peraltro scorrendo l’elenco dei settori che investono green con più convinzione si trovano proprio quelli trainanti del Made in Italy, quelli più tradizionali e quelli di più recente acquisizione: il comparto alimentare (27,7 per cento contro una media del complesso dell’industria e dei servizi del 22 per cento), quello agricolo (49,1 per cento), il legno-mobile (30,6 per cento), il settore della fabbricazione delle macchine ed attrezzature e mezzi di trasporto (30,2 per cento), e poi tessile, abbigliamento, calzature e pelli (23 per cento).
In sostanza la green economy è la spinta vitale di un’Italia che sa essere più competitiva e più equa, perché fondata su un modello produttivo diverso.
Un modello in cui tradizione e innovazione, sostenibilità e qualità si incrociano realizzando una nuova competitività.
L’Italia non può considerarsi una delle vittime della globalizzazione. Piuttosto è un paese che sta cercando di approfittarne per modificare profondamente la propria specializzazione internazionale, modernizzandola, proprio grazie alla green economy. Creando valore aggiunto in settori che, per molti osservatori, erano senza speranze e promuovendo nuove specializzazioni in altri settori, in cui oggi siamo leader.
Non è un caso, dunque, se nel 2012 siamo stati tra i cinque paesi al mondo (con Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud) ad avere un saldo con l’estero superiore ai 100 miliardi di dollari (per i manufatti non alimentari). Tra ottobre 2008 e giugno 2012 – mentre sul mercato interno domanda e produzione crollavano per la crisi e l’austerità – il fatturato estero dell’industria italiana è cresciuto più di quello tedesco e francese.
La green economy, insomma, fa già parte del presente della nostra economia. E può diventarne il futuro.
Affinché ciò avvenga e si imbocchi definitivamente la strada della green economy, in Italia bisogna immaginare e tradurre concretamente un vasto programma di riforme strutturali in grado di riorientare risorse, investimenti, comportamenti.
Se questo è vero allora green economy significa investimenti ingenti su scuola, formazione e ricerca; significa ridare impulso ad una politica che sia in grado di programmare e orientare nel medio-lungo periodo; significa cura scrupolosa del territorio nelle sue diverse declinazioni: città, ambiente, cultura, agricoltura, paesaggio, infrastrutture.
Così come la Green economy significa massimizzare l’efficienza in tutte le sue declinazioni: nella trasformazione delle materie prime, nell’uso di energia, nell’uso del suolo, efficienza nell’impiego di prodotti e servizi.
In particolare Green economy sposta l’attenzione dal possesso dei beni all’accesso a servizi. Questo significa ripensare la produzione di massa dei beni di consumo da un lato, e dall’altro, invertire l’attuale tendenza alla sempre più rapida obsolescenza dei prodotti di consumo sostituendo parte della produzione di beni, con la produzione di servizi di manutenzione e riparazione, nonché con forme di accesso a beni condivisi.
In questo senso è possibile individuare alcune priorità e urgenze intorno a cui rafforzare, in questi mesi e nei prossimi anni, un impegno istituzionale capace di aiutare il Paese a superare alcuni suoi limiti e ritardi e imboccare la strada della crescita:
attuare una riforma fiscale ecologica che sposti il carico fiscale, senza aumentarlo, a favore dello sviluppo degli investimenti e dell’occupazione green.
Per raggiungere questo obiettivo si può agire su più fronti: a) lavorare per eliminare gli incentivi alle attività economiche che hanno impatti negativi sull’ambiente; b) orientare la revisione della spesa pubblica con particolare attenzione a quella con impatti negativi per l’ambiente; c) adottare misure di fiscalità ecologica spostando il carico fiscale in base al principio di «chi inquina paga» tassando il consumo di suolo e le risorse del sottosuolo (una graduale carbon tax, road pricing, ecc.) indirizzando altresì eventuali incentivi verso le fonti rinnovabili dismettendo i vecchi impianti inquinanti del nostro paese; d) incrementare la quota del fondo regionale finanziato dal tributo sulle discariche e utilizzare le maggiori entrate ottenute con questi provvedimenti per realizzare la deducibilità fiscale degli investimenti finalizzati all’innovazione ecologica e per ridurre il cuneo fiscale per il lavoro, in particolare nelle attività della green economy; e) riformare l’attuale sistema fiscale spostando il peso fiscale dal lavoro al patrimonio e al consumo di prodotti e di materiali più inquinanti;
incentivare la penetrazione di strumenti credibili ed oggettivi di quantificazione degli impatti ambientali associati alle attività umane, con lo scopo di misurarne la sostenibilità;
attivare programmi per un migliore utilizzo delle risorse europee e per sviluppare strumenti finanziari innovativi per le attività della green economy, valutando altresì l’opportunità di prevedere deroghe ai patti di stabilità per investimenti in campo ambientale ed energetico con particolare attenzione alle start up, favorendone in ogni modo l’accesso al credito.
È indispensabile avviare un programma nazionale che punti a supportare un miglior utilizzo dei fondi europei, un maggior ricorso ai Fondi della Banca Europea degli investimenti ed una crescita della presenza dei progetti italiani finanziati dalle risorse comunitarie per le attività della green economy.
Nello stesso tempo bisogna promuovere la progettazione e la sperimentazione di strumenti finanziari innovativi come i project bond, i performance bond, i social impact bond o altri meccanismi basati sui principi di «payment by results» o di «impact finance» o di «crowfunding»: con tali strumenti finanziari innovativi e correlati ai risultati, si punta a ridurre il costo del denaro, a favorire partnership pubblico-privato, stimolando una crescita nella qualità, oltre che nella quantità, delle iniziative green.
Inoltre è necessario aumentare gli appalti pubblici verdi di beni e servizi per realizzare gli obiettivi del Piano d’Azione Nazionale per la sostenibilità degli acquisti della Pubblica Amministrazione, rafforzando la governance del sistema, chiarendo competenze e responsabilità, migliorando la trasparenza ed i controlli e fornendo strumenti adeguati a supporto;
attivare programmi di informazione in merito ai finanziamenti esistenti anche in termini qualitativi e quantitativi;
attivare programmi di semplificazione e di trasparenza in merito all’accesso al credito sia nell’ambito degli investimenti pubblici che privati;
attivare investimenti che si ripagano con la riduzione dei costi economici, oltre che ambientali, per le infrastrutture verdi, la difesa del suolo e le acque.
Oltre a ridurre le emissioni di gas serra, occorre investire in misure di attenuazione e di adattamento per ridurre i rischi e i costi della crisi climatica puntando sullo sviluppo delle infrastrutture verdi.
Le infrastrutture verdi (costituite nelle città da interventi come lo sviluppo di parchi, di giardini, di alberature ma anche di pareti e tetti verdi e, più in generale, da reti di aree naturali e seminaturali) sono utili non solo per attenuare la crisi climatica, ma possono essere progettate e gestite in maniera da tutelare la biodiversità e fornire un ampio spettro di servizi ecosistemici.
La difesa del suolo è certamente una delle opere pubbliche più significative e urgenti di cui ha bisogno il nostro Paese. Serve una pianificazione delle attività di prevenzione del dissesto idrogeologico e di difesa del suolo, un provvedimento normativo che regolamenti la sicurezza del territorio e le modalità di acquisizione e monitoraggio dei dati riguardanti i fenomeni idrogeologici, servono finanziamenti adeguati e stabili nel tempo nonché misure per sottrarre gli investimenti per la prevenzione dai vincoli del patto di stabilità. Occorre migliorare la capacità di spesa dei soggetti attuatori attraverso azioni di coordinamento e di snellimento delle procedure.
L’acqua è un bene comune sempre più importante. Bisogna investire per assicurare la sua tutela e per evitare sprechi così da assicurarne la qualità e la quantità per gli usi potabili, ambientali, agricoli e industriali. Per queste ragioni sono necessarie adeguate pianificazione e gestione dando piena operatività ai distretti idrografici così da assicurare le risorse disponibili qualificando a tal fine l’uso dei fondi strutturali 2014-2020. Ciò consentirebbe di rendere più efficiente il programma di spesa pubblica sia per migliorare e tutelare la qualità delle acque, sia per ridurre sprechi e promuovere impieghi efficienti con soluzioni impiantistiche caratterizzate da elevata flessibilità e che abbiano un ridotto impatto ambientale, assicurando un elevato riutilizzo delle acque reflue depurate, associate a tecnologie che riducono le quantità di acqua impiegata per irrigare.
Occorre anche riconoscere il valore economico dei servizi resi dagli ecosistemi acquatici, introducendo il recupero dei costi ambientali e della risorsa nei canoni di concessione delle acque pubbliche e nelle tariffe del servizio idrico integrato che dovrebbe essere dotato di adeguati sistemi di misurazione.
Infine, bisogna valorizzare il risparmio idrico attraverso azioni premiali quali l’introduzione dei certificati blu e di incentivi al riutilizzo delle acque reflue depurate, in particolare nel settore agricolo. Occorre altresì affrontare il problema dell’elevata quantità di acque minerali imbottigliate, circa 9 mld di bottiglie, di cui solo il 50 per cento viene di fatto riciclato prevedendo magari il divieto di utilizzo di acque imbottigliate nella plastica nelle scuole;
innovare le procedure previste per i bandi pubblici e le gare d’appalto mettendo al centro la qualità dei materiali usati, la qualità del prodotto finale, la qualità e la sicurezza del lavoro;
un programma nazionale per l’efficienza e il risparmio energetico eliminando le barriere allo sviluppo dell’efficienza energetica; barriere culturali, barriere economiche, barriere normative.
Il volume di affari al 2020 potrebbe raggiungere un valore di 350 mld di euro, con un’incidenza di 2 punti all’anno di PIL e ricadute occupazionali sul sistema industriale fino a 200.000 nuovi occupati.
L’efficienza energetica deve diventare una priorità strategica, così sarà possibile sviluppare un approccio integrato con effetti moltiplicativi sui benefici che possiamo ottenere;
attuare misure per sviluppare le attività di riciclo dei rifiuti. Si tratta di un altro tema di fondamentale importanza. Il nostro Paese risente di differenti, contrastanti, stratificate normative di riferimento, che hanno determinato una elevata incertezza e una differenziazione territoriale nei comportamenti adottate dalle autonomie locali.
La direttiva europea 2008/98/CE ha introdotto previsioni volte ad accompagnare l’Unione verso una «società del riciclaggio» stabilendo che entro il 2020 la preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio di rifiuti quali carta, metalli, plastica e vetro arrivi almeno al 50 per cento dei rifiuti urbani prodotti.
In questo senso, la raccolta differenziata deve essere finalizzata al riutilizzo, riciclo e recupero dei rifiuti, privilegiando il recupero dei sottoprodotti come valore e non come rifiuto.
Occorre ridefinire criteri e regole che abbiano valore nazionale e che siano in grado di rimettere ordine e semplificare una materia estremamente complessa e nello stesso tempo decisiva ai fini della crescita qualitativa del Paese.
È necessario partire da una tariffazione puntuale per la gestione dei rifiuti urbani, adottando un meccanismo che assicuri la copertura dei costi, premiando chi conferisce i rifiuti in modo differenziato, elaborando un regolamento tipo per l’adozione da parte dei soggetti locali. Bisogna incoraggiare e misurare, oltre alle raccolte differenziate, l’effettivo riciclo assicurando, inoltre, la priorità del riciclo rispetto al recupero energetico e scoraggiando il ricorso allo smaltimento in discarica. In questo senso è opportuno assicurare che i produttori di tutte le tipologie di beni contribuiscano economicamente in modo adeguato alla raccolta e al riciclo dei rifiuti da essi generati e che siano coinvolti nella riciclabilità dei loro prodotti, così come bisogna assicurare i pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni, sviluppare la ricerca, migliorare le normative, fornire un quadro certo, semplificare le procedure, comprese quelle del fine rifiuto, in modo da incoraggiare il riciclo dei rifiuti, prevedendo, altresì che le risorse derivanti dal mancato raggiungimento degli obblighi di raccolta dei comuni siano destinate al recupero ed al riciclo e che le risorse derivanti dalla tassa sulle discariche debbano essere investite per la raccolta differenziata ed impianti di recupero e riciclo;
promuovere il rilancio degli investimenti per lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili.
La Strategia Energetica Nazionale, nel tentativo di contemperare le esigenze dell’oggi con gli obiettivi energetici e ambientali di medio e lungo termine, dà risposte soddisfacenti, sia perché indica traguardi più ambiziosi di quelli assunti a livello comunitario, sia perché promuove un futuro coerente con la road map 2050 prospettata a livello europeo.
Ciononostante, in tema di energie rinnovabili, è necessario riflettere sulla strada seguita in questi anni. Infatti, l’eccesso di incentivazione alle fonti rinnovabili, e in particolare al fotovoltaico, ha causato un repentino aumento degli oneri di sistema per il sostegno a tali fonti, passati da circa 1,5 mld di euro l’anno nel 2008 a 12 mld stimati per quest’anno, che incidono per oltre il 20 per cento sulla bolletta elettrica. Dunque, l’equivalenza «incentivi generosi = politiche per la green economy» è non solo sbagliata, ma dannosa per gli stessi settori che pur possono contribuire a un’evoluzione in senso ecologico del settore energetico. È quindi opportuno, fermi restando gli obiettivi, immaginare strumenti più efficaci di quelli finora adottati. In particolare bisognerebbe profondere maggiori sforzi finanziari a sostegno dell’innovazione e dell’industria dei componenti (partendo da quella su cui l’Europa vanta ancora presidi importanti), anziché puntare esclusivamente sul sostegno alla domanda dei componenti, visti gli esiti di questo approccio.
Naturalmente, per arrivare ad un progressivo superamento del sistema attuale di incentivi occorre attivare politiche di sostegno degli investimenti nelle rinnovabili, che nei prossimi anni potrebbero essere molto ingenti. Sarebbe opportuno però avvicinarsi all’auspicata grid parity e, nel contempo, rafforzare la filiera di produzione nazionale, attraverso un nuovo sistema di incentivi da modulare gradualmente al ribasso in relazione alla riduzione dei costi per i progressi dell’evoluzione tecnologica e delle economie di scala. Per contenere il peso degli incentivi sulle bollette elettriche, in particolare (ma non esclusivamente) per gli impianti medio-grandi, si può ricorrere a forme come la detassazione parziale degli investimenti, il credito d’imposta, l’esenzione parziale dell’Ires sugli utili reinvestiti, una maggiore detrazione IVA sugli investimenti, contributi in conto capitale, meccanismi come lo scambio sul posto (innalzando la soglia oltre i 200 kW). Sarebbero molto utili anche specifiche linee di credito con tassi agevolati per le rinnovabili, facendo ricorso a project bond europei specifici, oppure attingendo dalle entrate connesse con il meccanismo europeo dell’ETS o attraverso il gettito derivante dalla carbon tax;
effettuare programmi di rigenerazione urbana, di recupero di edifici esistenti, nonché di eventuale sostituzione di edifici, di bonifica, limitando il consumo di suolo non utilizzato.
È indispensabile puntare, per la ripresa del settore edile e per la disponibilità di alloggi, su programmi di rigenerazione urbana e sul recupero, la ristrutturazione, il rifacimento, il riuso e la riqualificazione energetica degli edifici esistenti.
Le bonifiche dei siti contaminati e delle aree industriali dismesse possono divenire un efficace strumento di tutela delle risorse ambientali (suoli e acque sotterranee) e di recupero delle aree all’uso produttivo e allo sviluppo di investimenti, riducendo il consumo di nuovo suolo, oltre che costituire un forte volano per l’occupazione.
Per favorire tali bonifiche servono semplificazioni, modalità di funzionamento delle conferenze dei servizi e procedure più rapide e idonee in particolare per la protezione delle falde, la riqualificazione economica dei siti, per aggiornare e coordinare le analisi di rischio, le procedure di calcolo e i valori limite. Sono necessarie misure efficaci per fermare il consumo eccessivo di suolo non urbanizzato, per tutelare la produzione agricola e i servizi ecosistemici (assetto idrogeologico, biodiversità, eccetera) che esso fornisce, nonché per promuovere le attività di recupero del patrimonio edilizio esistente e il riutilizzo delle aree urbanizzate.
È necessario attivare processi partecipativi per lo sviluppo delle città intelligenti e sostenibili (Smart City) promuovendo accordi volontari e misure innovative (coinvolgendo Istituzioni, Università e centri di ricerca, imprese e cittadini) per la riqualificazione in chiave green delle nostre città.
In Italia i consumi energetici che possono essere fatti risalire all’edilizia rappresentano circa il 36 per cento di quelli totali. Tre sono gli ambiti in cui intervenire: a) nelle nuove costruzioni; b) nel patrimonio edilizio esistente; c) nelle città in senso lato.
Le istituzioni europee attribuiscono carattere prioritario al tema delle politiche urbane ed in particolare al tema della rigenerazione urbana, alle quali potrebbero essere destinati più di 20 mld di euro (3 mld l’anno in 7 anni).
A queste risorse si aggiungono poi quelle del Fondo per lo Sviluppo e la Coesione che possono essere destinati a misure complementari.
C’è necessità di affrontare in modo organico il tema delle città;
rendere stabili le misure di incentivazione su ristrutturazioni edilizie, risparmio ed efficienza energetica nelle abitazioni e negli immobili.
Secondo le nuove stime elaborate dal CRESME nel mese di maggio 2014 relative al valore della produzione delle costruzioni, nel 2013, su un valore della produzione dell’intero settore delle costruzioni stimato in 174,6 mld di euro (comprensivi degli investimenti in impianti da fonti energetiche rinnovabili – impianti FER, ed escluse le spese per i trasferimenti di proprietà) la spesa in interventi di manutenzione straordinaria e ordinaria ammonterebbe a 116,8 mld di euro, pari pertanto al 66,9 per cento dell’intero fatturato dell’edilizia, con un significativo incremento delle risorse investite rispetto alle previsioni elaborate nell’autunno del 2013.
Riprendendo i dati degli ultimi anni è possibile avere un’idea dell’impatto delle misure di incentivazione e comprenderne la portata. Nel 2011 gli investimenti agevolati ammontavano a 17,7 mld di euro. Nel 2012 sono passati a 19,2 mld di euro in conseguenza di un aumento degli interventi per il recupero edilizio (16,3 mld di euro, contro i 14,4 del 2011) e di una riduzione degli interventi finalizzati al risparmio energetico (2,9 mld di euro contro i 3,3 del 2011).
Il 2013 è stato caratterizzato da un ulteriore ed eccezionale aumento dell’importo dei lavori detraibili, visto che la quota degli investimenti è stimata ad un livello di circa 27,5 mld di euro. La crescita del valore complessivo è imputabile sia agli interventi di recupero (che ammonterebbero a 23,5 mld di euro), sia agli interventi di efficientamento energetico (4 mld).
L’elevato aumento del 2013 appare riconducibile proprio alle evoluzioni del quadro normativo.
Infine per il 2014, si ipotizzerebbe, nello scenario previsionale, un ulteriore incremento del 20 per cento dei lavori attivati nel 2013, sia per il recupero edilizio che per l’efficienza energetica. E la spesa prevista in interventi di riqualificazione incentivata nel periodo 2011-2014, genererebbe un assorbimento occupazionale complessivo pari a circa 971.000 occupati diretti corrispondente a una media annua nel triennio di 242.000 occupati. Considerando anche gli occupati indiretti l’occupazione attivata nel periodo sarebbe di 1.400.000 occupati.
In considerazione del peso sempre più rilevante che i lavori incentivanti svolgono sul mercato, a valori correnti nel 2013 la crescita degli investimenti in costruzioni è stimata in 5,1 punti percentuali, e nel 2014 in 6,8 punti;
investire nella mobilità sostenibile urbana.
Per rendere più sostenibile il sistema di mobilità, e limitarne gli impatti ambientali e sociali negativi, è necessario invertire la tendenza dei decenni passati alla espansione incontrollata degli agglomerati urbani e al crescente consumo di nuovo suolo. Prima di consumare nuovo suolo è importante dimostrare che non sia possibile riutilizzare uno spazio esistente. Una «città compatta» riduce la domanda di trasporto privato, la lunghezza degli spostamenti quotidiani, e offre allo stesso tempo nuovo impulso economico tramite lo sviluppo di attività di rigenerazione urbana.
In questo senso bisogna dare priorità alla mobilità urbana sostenibile. La stragrande maggioranza delle emissioni inquinanti e degli impatti sociali dei trasporti in Italia avviene per gli spostamenti al di sotto dei 30 km e quindi relativi alle città. Puntare su una mobilità sostenibile urbana significa potenziare il trasporto pubblico urbano (garantendo sedi dedicate, nodi urbani efficienti, maggiore velocità e investimenti adeguati, finanziabili anche con proventi dei pedaggi e delle tasse di circolazione); significa incrementare notevolmente la modalità ciclo-pedonale (puntando al 15 per cento degli spostamenti urbani in bicicletta); significa sviluppare il car sharing e il car pooling, che in molti casi possono attrarre iniziative economiche private e partnership pubbliche-private.
Inoltre è indispensabile espandere la diffusione di veicoli a basse emissioni. Il parco circolante in Italia (primo in Europa con oltre 600 autoveicoli ogni 1.000 abitanti) va reso più sostenibile sia numericamente, riducendo il traffico e gli autoveicoli circolanti in particolare nelle città, sia qualitativamente, attraverso la sostituzione dei veicoli più inquinanti con quelli a basse emissioni(sotto i 95g di CO2 per km) e con quelli a gas, ibridi ed elettrici. Nel 2030 un veicolo circolante su due deve far parte di queste tipologie a basse emissioni. Per facilitare questa transizione sarebbe utile adottare la Direttiva Eurovignette (che prevede pedaggi differenziati in base alle emissioni) e forme di incentivazione alla sostituzione con veicoli a basse emissioni;
valorizzare le potenzialità di crescita della nostra agricoltura di qualità.
È necessario promuovere gli investimenti degli imprenditori agricoli in attività che favoriscano produzioni biologiche, di qualità, di filiera corta (anche attraverso i distretti rurali e agroalimentari) e di rafforzamento in chiave green delle attività del settore che assicurano le maggiori possibilità di successo economico della nostra agricoltura. Devono essere incentivati l’acquisto e il consumo di prodotti agroalimentari di qualità, ottenuti con processi sostenibili, di filiera corta anche attraverso azioni mirate tese a rafforzare la vendita diretta (come la messa a disposizione di beni immobili inutilizzati appartenenti al patrimonio dello Stato per agevolare gli agricoltori nell’apertura dei mercati alimentari. Buoni risultati si possono ottenere anche dall’inserimento di alimenti biologici e a filiera corta negli acquisti verdi della pubblica amministrazione. Occorre favorire, attraverso lo strumento della detrazione fiscale, le iniziative private dirette a valorizzare la dimensione multifunzionale dell’agricoltura. In particolare, si tratta di integrare lo sviluppo dell’agricoltura e delle attività tradizionalmente collegate alla produzione con azioni mirate a promuovere la pluriattività, intesa come strumento di organizzazione, manutenzione e fruizione del territorio nel suo complesso.
La nostra agricoltura è una delle più competitive a livello europeo con primati nel valore aggiunto per ettaro (2181 euro/ha, il triplo di quello del Regno Unito, il doppio della Spagna, quasi il doppio della Francia, 1 volta e mezza di quello tedesco), occupati agricoli ad ettaro (10,1 ogni 100 ha, il triplo rispetto alla Francia, Germania e Spagna, quasi 6 volte quello del Regno Unito), export nel mondo e sicurezza alimentare.
Riguardo a questo ultimo aspetto, basti pensare che il settore agricolo italiano vanta il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici oltre il limite (0,3 per cento), inferiori di 5 volte a quelli della media europea (1,5 per cento di irregolarità) e di 26 volte a quelli extracomunitari (7,9 per cento). Risultati importanti, raggiunti anche grazie alla scommessa sulla qualità e sulla sostenibilità. Quasi la metà (49,1 per cento) delle imprese con produzione prevalentemente agricola con dipendenti, infatti, negli ultimi tre anni (2010-2012) ha adottato metodi e tecnologie per la riduzione dei consumi di energia e acqua. Si tocca la punta del 63 per cento nel settore delle coltivazioni di serra e dei vivai, dove il consumo di acqua ed energia è piuttosto elevato;
promuovere la valutazione degli effetti occupazionali dei diversi interventi «green»;
attivare un piano nazionale per l’occupazione giovanile per una green economy.
Si tratta di una delle sfide più impegnative e più urgenti per il nostro Paese. L’occupazione, in particolare quella giovanile, è oggi una straordinaria emergenza e chiama direttamente in causa la capacità dell’Italia di ricostruire una strada verso il futuro. Ciò richiede scelte nette e incisive che, da un lato, ridiano fiato ai consumi e, dall’altro favoriscano investimenti per nuova e buona occupazione e aiutino il sistema delle imprese.
Occorre promuovere l’occupazione giovanile riducendo per almeno tre anni, il prelievo fiscale e contributivo per l’impiego di giovani. Occorre varare un piano nazionale per lo sviluppo dell’occupazione giovanile, sostenuto con iniziative mirate di formazione e qualificazione, con lo scopo di dare più forza al manifatturiero Made in Italy, associato alla bellezza e alla qualità ecologica, con produzioni pulite e prodotti di elevata qualità ecologica attraverso:
1) una revisione e riallocazione in chiave di green economy e di ecoinnovazione degli incentivi distribuiti all’industria in vari modo;
2) un rafforzamento in chiave green delle principali filiere produttive (costruzioni, agricoltura e agroalimentare, energia, turismo, meccanica, chimica, tessile e abbigliamento, ecc.);
3) un programma di risanamento e riqualificazione ambientale degli impianti e delle produzioni ad elevato impatto promuovendo l’innovazione dei processi produttivi e dei prodotti;
4) il lancio di specifiche iniziative nazionali di valorizzazione green del tessuto produttivo, attraverso la promozione del Made «green» in Italy di prodotto e di qualificazione in chiave ambientale delle aree industriali anche per aumentare l’attrattività dei territori;
5) il sostegno alle start-up di imprese giovanili della green economy.
Naturalmente, in materia di green economy, ciò che vale per l’Italia, ciò che vale per un Paese, deve valere per gli altri. Nel senso che la green economy è necessariamente una sfida globale che deve investire ogni singolo paese e ogni area del mondo. Realizzare le condizioni per uno sviluppo sostenibile non può essere un impegno unilaterale, ma richiede una larghissima convergenza nella definizione degli obiettivi e una straordinaria determinazione nel loro perseguimento.
La sfida è ambiziosa, ma è anche l’unica strada percorribile se si vogliono salvaguardare le più grandi conquiste della civiltà e preservare il patrimonio naturale. Si tratta di ridefinire nuovi equilibri capaci di restituire prospettiva all’umanità superando la contrapposizione anacronistica tra i diritti degli individui, le loro aspirazioni e la difesa del pianeta.
In questo senso l’Europa può e deve essere all’avanguardia, deve essere concretamente un punto di riferimento avanzato sul terreno dell’innovazione e della costruzione di una nuova sintesi tra le ragioni dello sviluppo e della crescita e quelle della tutela dell’ambiente.
Ci sono tutte le condizioni perché ciò accada. A dirlo è l’ultimo rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente (EEA): «la sfida europea parte dalla Green Economy, per stimolare il lavoro e l’innovazione». E ancora: «l’Europa necessita di una vera e propria sterzata, decisa e sistematica, verso vere e proprie politiche ambientali. Per esempio, l’obiettivo proposto di tagliare i gas responsabili dell’effetto serra dell’80-95 per cento rispetto ai livelli del 1990 entro il 2050 non sarà possibile facendo unicamente affidamento sui maggiori standard di efficienza. Ciò che serve è l’innovazione alla guida di questo processo. L’innovazione ambientale è la chiave per indirizzare le sfide del 21esimo secolo. Questo non vuol dire solo incoraggiare nuove invenzioni, ma incoraggiare la nascita e la diffusione di nuove tecnologie verdi potrebbe essere ancora più importante».
E la nuova programmazione comunitaria 2014-2020 rappresenta senza dubbio una straordinaria opportunità per fare passi avanti nella giusta direzione.
L’Italia deve cogliere questa occasione insieme a tutti gli altri partner europei. Deve farlo in modo particolare in questa fase nella quale è chiamata a guidare il semestre di Presidenza europea.
È opportuno, in questi mesi, porre al centro dell’agenda europea alcuni temi e alcune priorità in grado di sviluppare e accelerare politiche di promozione della green economy.
1) Misure europee di fiscalità ecologica sia per migliorare l’efficacia delle politiche ambientali, sia per alleggerire la pressione fiscale sul lavoro e sulle imprese.
L’Italia su questo terreno ha le carte in regola per portare un contributo importante alle politiche fiscali europee. Il 24 febbraio 2014, infatti, il Parlamento italiano ha approvato la delega al Governo in materia fiscale, che prevede un richiamo diretto alla fiscalità energetico-ambientale (articolo 15); nel Collegato Ambientale alla Legge di Stabilità (ancora all’esame del Parlamento), sono inoltre previsti, agli articolo 30 e 31, l’istituzione di un Comitato per il Capitale Naturale e di un Catalogo dei sussidi ambientali dannosi e favorevoli.
È possibile operare per dare attuazione pratica alle ripetute indicazioni, provenienti dalla stessa UE, per identificare e rimuovere i sussidi pubblici dannosi per l’ambiente attualmente esistenti; dare attuazione agli indirizzi di contabilità ambientale per misurare il valore del capitale naturale e dei servizi eco-sistemici; varare un programma di riforma della fiscalità generale integrato con quella ambientale che sia incentrato su uno spostamento significativo della tassazione dal lavoro all’ambiente; promuovere una valutazione sull’efficacia degli strumenti fiscali e parafiscali attualmente operanti a livello europeo, a cominciare dall’ETS per i grandi impianti e dall’Euro-Vignette per i trasporti fino ai crediti di carbonio derivanti dal compostaggio dei rifiuti organici e lavorare ad una proposta per un nuovo sistema integrato, anche basato su un meccanismo carbon tax, che sia efficace ai fini del raggiungimento degli obiettivi climatici e ambientali; prestare maggiore attenzione ai criteri ecologici nella revisione in corso della Direttiva sulla tassazione energetica, con attenzione anche a non ostacolare l’utilizzo dei carburanti gassosi, necessari per ridurre gli impatti ambientali per una fase di transizione.
2) La crisi climatica si sta aggravando con conseguenze rilevanti, non solo ambientali, ma sociali ed economiche.
Superato il periodo di verifica del Protocollo di Kyoto, occorrono nuove misure internazionali ed europee per fronteggiare questa vera e propria emergenza. Queste misure possono avere anche positive ricadute sia economiche, sia occupazionali riducendo i consumi e le importazioni di combustibili fossili, aumentando investimenti e occupazione sia nell’efficienza energetica, sia nello sviluppo ulteriore delle fonti energetiche rinnovabili.
Entro l’anno in corso l’Unione Europea definirà i suoi impegni per il 2030 su clima ed energia, mentre è chiamata a contribuire a definire il nuovo trattato internazionale sul clima che verrà approvato in occasione della Conferenza di Parigi del 2015. La proposta della Commissione europea (COM(2014)15) in discussione può essere migliorata con:
l’identificazione di tre target distinti per le emissioni di gas serra, le fonti rinnovabili e l’efficienza energetica;
la ripartizione degli impegni fra gli Stati membri attraverso un meccanismo di burden sharing che includa anche meccanismi periodici di verifica dei risultati associati a sistemi premiali o sanzionatori.
Nell’ambito della trattativa per l’accordo globale sul clima, l’UE sotto la guida italiana, potrebbe dare un contributo importante per un nuovo accordo (post Kyoto) internazionale sul clima, sostenendo:
una progressiva convergenza verso target basati sulle emissioni pro capite di gas serra, identiche almeno per tutti i grandi paesi, grandi emettitori;
un accordo preliminare fra i grandi Paesi che emettono la gran parte delle emissioni di gas serra che preveda obiettivi vincolanti e modalità di controllo.
3) Nell’ambito della nuova PAC occorre promuovere modelli di agricoltura sostenibile e di qualità che consentano:
di portare a termine la revisione del regolamento sulla produzione biologica;
di favorire un’etichettatura, di tipo europeo, orientata alla trasparenza, alla corretta informazione del consumatore ed alle esigenze del sistema delle imprese;
di accelerare la semplificazione delle procedure relative alle denominazioni d’origine, alla applicazione della menzione specifica «Prodotti di Montagna» ed all’analisi di quella relativa ai «Prodotti di Fattoria», favorendo le condizioni perché i prodotti di qualità certificati siano tutelati e riconosciuti a livello internazionale;
di intervenire sulle metodologie di calcolo degli impatti ambientali, rendendoli più semplici, flessibili ed applicabili anche per le piccole e medie imprese agricole, e più rispondenti ai concetti di economia circolare;
di sostenere l’azione del Ministro dell’Ambiente nella direzione di affermare il principio della sovranità alimentare e quindi la libertà dei singoli Stati membri di scegliere la propria strategia agro-alimentare potendo prevedere l’esclusione dell’utilizzo degli OGM.
4) Sostenere l’iniziativa europea per il riutilizzo delle acque reflue per un uso agricolo e industriale per i quali ad oggi non esistono standard comuni relativi al loro impatto ambientale e sanitario. Ad esempio, normare sistemi come la Fitodepurazione, consentirebbe a tutta una serie di insediamenti sparsi di risolvere il problema delle acque reflue in modo naturale e sostenibile, senza dover ricorrere ad apparati costosi ed impattanti.
5) Durante il semestre di Presidenza italiana dell’UE sarà discussa la Comunicazione della Commissione Europea sull’uso efficiente delle risorse e i rifiuti.
È l’occasione per affrontare la disciplina in materia, soprattutto su alcuni nodi ancora aperti:
l’attuazione delle linee guida europee per la prevenzione della produzione dei rifiuti;
il rafforzamento a livello europeo del GPP al fine di rendere effettivo e raggiungibile, per le pubbliche amministrazioni, l’obiettivo del 50 per cento di acquisti pubblici verdi;
il rafforzamento del principio della responsabilità estesa del produttore, con il coinvolgimento anche di quelle filiere dove ancora non si applica;
innalzamento degli obiettivi di riciclo e l’elaborazione di un modello europeo unitario di calcolo del conseguimento di tali obiettivi, che includa tutti i rifiuti urbani;
la fissazione di obiettivi specifici per la raccolta e il trattamento dei rifiuti organici e l’applicazione delle indicazioni della Sail Strategy laddove si propone di creare incentivi per ridurre le emissioni di carbonio e preservare la materia organica del suolo;
la definire della proposta di Direttiva sulla riduzione dei sacchetti di plastica monouso;
il completamento a livello europeo delle norme tecniche per l’End of Waste e gli indirizzi sulla definizione di sottoprodotti;
il calcolo delle ricadute occupazionali per ciascuna fase della gestione dei rifiuti;
l’introduzione nel dibattito internazionale, a fianco della eco-efficienza, anche del concetto di eco-sufficienza inteso quale calcolo delle risorse naturali utilizzate per ciascuna attività antropica per disporre di una misura della pressione globale sull’ambiente.
6) Consolidare e rafforzare a livello europeo le politiche per una green economy.
Tenendo conto che la Commissione e il Parlamento Europei hanno proposto come priorità per il 2014, il rilancio della crescita e la creazione di nuovi posti di lavoro e che il Governo italiano intende promuovere un dibattito approfondito sulla «crescita
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verde» e la «creazione di occupazione», in particolare quella giovanile, realizzando un incontro congiunto dei Ministri dell’Ambiente e dei Ministri del Lavoro dell’Unione Europea, è possibile e auspicabile una maggiore incidenza delle tematiche della green economy in modo da reinserire, nel ciclo annuale di coordinamento delle politiche europee, lo sviluppo sostenibile come principio guida dello sviluppo dell’Unione.
È infine auspicabile che le conclusioni della Presidenza italiana prevedano, nell’ambito dell’analisi annuale della crescita, di considerare con particolare attenzione le opportunità di nuovo sviluppo create dalle politiche ambientali e inserendo altresì tra le politiche prioritarie in materia di crescita e occupazione lo sviluppo di una green economy, consentendo l’esclusione degli investimenti in ricerca e ecoinnovazione dai vincoli del Patto di Stabilità.
ALLEGATO 2
Indagine conoscitiva sulla green economy.
DOCUMENTO PRESENTATO DAL MOVIMENTO 5 STELLE
Comitato di indagine sulla Green Economy, contributo dei componenti del MoVimento 5 Stelle, Commissione Ambiente.
Per un’economia verde sostenibile.
L’economia verde traccia la strada verso una maggiore efficienza nell’uso delle risorse naturali.
Eco-efficienza significa ridurre il prelievo di risorse naturali e le emissioni di sostanze inquinanti (i carichi ambientali) associati alle produzioni e all’erogazione dei servizi.
Nell’ambito delle emissioni di CO2 e del conseguente effetto serra, per esempio, si parla di decarbonizzazione dell’economia o anche di svincolare la crescita economica dal corrispondente aumento di emissioni di CO2. Ogni attività umana è connessa ad un impatto ambientale che può essere misurato da indicatori sintetici (ma parziali) come le emissioni cumulative di CO2 che contribuiscono ad uno dei problemi più impellenti, il surriscaldamento globale. In questi termini ecoefficienza significa ridurre le emissioni di CO2 per unità economica prodotta.
Questo aspetto è fondamentale e necessario per il perseguimento dell’obiettivo della sostenibilità, ma non sufficiente. Per spiegare questo assunto è necessario partire dalla definizione stessa del concetto di sostenibilità.
Sostenibilità, come definita dal Rapporto Brundtland del 1987, significa il raggiungimento di un «equilibrio fra il soddisfacimento delle esigenze presenti che non comprometta la possibilità delle future generazioni di sopperire alle proprie».
In un sistema economico sostenibile, il prelievo delle risorse naturali deve essere commisurato alle capacità del pianeta di rigenerarne gli stock mentre il flusso di rifiuti e sostanze inquinanti deve essere limitato per consentire di mantenere la stabilità ecologica degli ecosistemi.
Oggi indicatori di sostenibilità come l’impronta ecologica indicano che siamo ben lontani da questo equilibrio. Nel 2013 la data indicata per l’Earth Overshoot Day è il 20 Agosto. In 8 mesi l’umanità ha esaurito il suo budget ecologico per un anno.
Sarebbe tuttavia imprudente pensare che un anche drastico miglioramento della ecoefficienza basti da solo a ridurre di molto l’impronta ecologica dell’economia e a pervenire alla sostenibilità.
L’efficienza riguardo alle risorse si scontra con un ostacolo insormontabile, un sistema economico che anela ad una crescita economica stabile e continua. Anche in un’economia razionalmente organizzata il fabbisogno complessivo di risorse può diventare quindi troppo gravoso per la biosfera.
A dimostrazione di questo assunto andiamo ad analizzare un indicatore aggregato che misura la base materiale su cui si basa l’economia. Il Total Material Requirement (TMR) esprime la massa totale di materie prime (escludendo aria e acqua) prelevate dalla natura per supportare le attività umane ed è quindi una misura della pressione globale sull’ambiente. Per raggiungere un uso sostenibile e quindi prorogabile nel tempo delle risorse del pianeta e necessaria una riduzione GLOBALE del 50 per cento del prelievo totale di risorse. Tuttavia questo dato si basa su una riduzione media mondiale e non considera il fatto che attualmente l’accesso e il consumo delle risorse materiali è TOTALMENTE DISINIQUO nei diversi paesi. Considerando quindi di operare una riduzione nei soli paesi dove il prelievo di risorse è maggiore, vale a dire i paesi ricchi OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) si osserva come questa riduzione debba arrivare ad un 90 per cento del valore attuale.
Dovremmo quindi ridurre il nostro prelievo di risorse del 90 per cento attraverso un formidabile aumento della ecoefficienza delle nostre produzioni mantenendo, però una produzione di beni e servizi costante (PIL).
Tuttavia allo stesso tempo il sistema economico ha come obiettivo primario la crescita economica della produzione di beni e servizi. Nei paesi OCSE tipicamente ritenendo opportuna una crescita di circa il 3,5 per cento per anno. Supponendo quindi di poter mantenere una crescita costante e di voler raggiungere comunque un uso sostenibile delle risorse del pianeta ne deriva che l’aumento dell’efficienza nell’uso delle risorse debba essere ridotta non di alcuni punti percentuali, come avviene oggi, ma a circa l’1 per cento di oggi, con una riduzione del prelievo di risorse del 99 per cento.
Si capisce quindi come questo obiettivo appaia troppo ambizioso per un sistema produttivo che non intenda mettersi in discussione profondamente.
A questo va aggiunto un altro elemento di riflessione. Il cosiddetto Paradosso di Jevons è un’osservazione di William Stanley Jevons nel campo dell’economia, che afferma che i miglioramenti tecnologici che aumentano l’efficienza di una risorsa possono fare aumentare, anziché diminuire, il consumo di quella risorsa. È un paradosso perché le sue conclusioni vanno contro il senso comune, ma non si tratta di un paradosso in senso stretto ed è accettato nelle teorie economiche attuali. L’aumento di efficienza si traduce in una diminuzione di costi e quindi in un aumento dei consumi. Questo effetto è chiamato in economia effetto rimbalzo (rebound effect).
L’effetto rimbalzo è il cambiamento che deriva nella produzione o nel consumo di beni quando l’adozione di una misura migliorativa libera o costringe fattori produttivi o di consumo.
Denaro (minor o maggior costo del prodotto)
Tempo (minor o maggiore dispendio di tempo nell’uso/produzione)
Spazio (minor o maggior consumo di spazio/suolo)
Tecnologia (quando influisce sulla disponibilità di specifiche tecnologie o materie prime)
Il cambiamento può avere effetti positivi o negativi.
Positivo/desirabile quando per esempio installando costose misure di abbattimento delle emissioni aumenta il prezzo dei prodotti => meno soldi a disposizione del consumatore => meno soldi spesi per altri potenziali acquisti => meno impatti.
Negativo/non desiderabile: Installare sistemi produttivi più efficienti potrebbe ridurre il prezzo dei prodotti => più disponibilità per i consumatori => più impatti.
I trend di crescita dei consumi indicano infatti una crescita pressoché costante nonostante l’aumento di efficienza nell’uso delle risorse. In buona sintesi l’effetto rimbalzo dimostra come il solo aumento di efficienza difficilmente potrà contrastare l’aumento del prelievo di risorse (ed il loro conseguente esaurimento) e dei carichi ambientali e quindi, in ultima analisi, il raggiungimento di un sistema economico sostenibile.
Per questo appare evidente che accanto al concetto di eco-efficienza vada elaborato il concetto di eco-sufficienza, cioè una saggia moderazione delle pretese ottenuta attraverso il cambiamento dei modelli e degli stili di vita. La sostenibilità non si raggiunge solo ottimizzando i mezzi, ma anche adeguando i fini. Se si volesse coprire tutto il fabbisogno mondiale di energia del traffico stradale mondiale (77 EJ/anno) sarebbe necessaria, con le tecnologie oggi disponibili, una superficie coltivata pari a 850 milioni di ettari (è sufficiente paragonarla alla superficie agricola italiana che è di circa 10 milioni di ettari per avere idea dell’entità delle risorse necessarie).
Una proposta concreta e attuabile nel contesto nazionale per spostare la priorità dalla crescita del PIL alla sostenibilità e alla crescita dell’occupazione in lavori utili arriva dal Movimento per la Decrescita Felice – MDF – (documentazione già spedita a tutti i membri del comitato d’indagine sulla Green Economy, che non compare al momento nel documento di sintesi per motivi imprecisati) relativa all’appello di imprenditori, tecnici, consulenti ed attivisti di MDF per un cambio di priorità in Italia nelle scelte economiche ed industriali e offre numerosi spunti al fine di iniziare a superare l’attuale crisi di sistema.
In questi giorni, la pubblicità del decreto «Sblocca Italia» sta ingenerando notevole apprensione e scoramento visto che si parla nuovamente di «Project Bond» per realizzare grandi opere infrastrutturali. Si tratta in pratica di fare ancora altri debiti per realizzare grandi opere finalizzate, più che alla reale utilità, a foraggiare grandi aziende non esenti da azioni illecite e tangenti come ci hanno mostrato i fatti degli ultimi mesi (in primis MOSE ed EXPO) e a far ripartire la crescita, come se questa fosse la soluzione ad ogni male.
Ancora grandi opere, ancora a debito per riavviare la crescita e poter pagare gli interessi sul debito. E in questo teatro dell’assurdo, si inserisce anche il luogo comune del collegamento diretto fra crescita e occupazione. Si dà per scontato che la crescita faccia automaticamente aumentare l’occupazione, ma non è vero e ci sono i numeri a dimostrarlo. Dagli anni ’60 ad oggi il PIL è aumentato di quasi 4 volte, mentre l’occupazione in proporzione all’aumento della popolazione è diminuita.
Ogni imprenditore sa che, nella maggior parte dei settori merceologici, l’aumento della produttività e quindi del PIL, a scapito spesso della qualità, si ottiene con l’automazione e con l’ottimizzazione dei processi produttivi e non aumentando proporzionalmente l’occupazione.
Se si spendono i pochi soldi disponibili, o si creano altri debiti come quelli dei Project Bond, per fare grandi opere infrastrutturali, magari pianificate in altri tempi, prenderebbero gli appalti le solite poche grandi imprese che hanno le attrezzature necessarie. Sarebbero coinvolti qualche decina di sub appaltatori e lavorerebbero poche migliaia di operai, visto che il grosso del lavoro lo farebbero le macchine. I denari spesi sarebbero concentrati in poche mani e non servirebbero a riavviare l’economia nemmeno nei territori interessati dalle stesse opere, perché il grosso degli operai verrebbe da fuori.
Per dimostrare queste tesi, sono stati studiati i dati della galleria per il TAV in val di Susa. Questa grande opera viene presa a titolo di esempio perché sono disponibili molti dati forniti dal Ministero competente, quindi certi e utili per avviare delle comparazioni. Tali dati indicano che la nuova galleria del TAV consentirebbe di creare 2000 nuovi posti diretti e 4000 indiretti. In realtà le cifre sembrano ottimistiche, ma anche se si raggiungessero tali obiettivi occupazionali, avremmo al massimo 6000 nuovi posti di lavoro contro un investimento minimo di 8,2 mld di euro, ovvero 0,73 nuovi posti per ogni milione di euro investito, sempre che il costo dei lavori non subisca aumenti esponenziali in corso d’opera come è sempre avvenuto fino ad oggi in Italia.
In ogni caso la spesa sarebbe coperta a debito ribaltando ancora una volta il problema sulle generazioni future, che dovrebbero anche sorbirsi i danni ambientali e le spese per l’energia necessaria a illuminare e climatizzare l’opera. Tutte le grandi opere infrastrutturali hanno per comune denominatore l’uso del debito, di molto cemento, di molta energia e hanno quindi un impatto ambientale molto rilevante. In sintesi si può dire che sull’altare ideologico della crescita del PIL e a favore di pochi soggetti che guadagnerebbero molto denaro, sacrificheremmo ancora una volta l’ambiente, l’occupazione, gli interessi della gran parte della gente ed i diritti delle generazioni future.
Lo stesso vale per le altre opere inserite nella legge obiettivo, a partire dalla SAT (autostrada Orte Mestre, di cui nessuno sente il bisogno, che potrebbe essere sostituita dalla semplice messa in sicurezza del tracciato esistente, che isolerebbe i paesi privi di svincolo sul suo percorso), la TAV Napoli Bari (esistono numerose alternative meno costose che partono dalla necessità di raddrizzare i nodi sull’attuale linea ferroviaria garantendo tempi di percorrenza paragonabili a quelli del TAV, ricordiamo che le linee TAV italiane al momento sono tutte in grave passivo economico ad eccezione della tratta Milano-Bologna), opere che hanno prospetti occupazionali simili a quelli del TAV in Val di Susa.
L’alternativa è cambiare le priorità e spendere il denaro in altro modo, partendo anche dalla consapevolezza che è convenienza di tutti investire subito le poche risorse disponibili in molte migliaia di piccoli e micro cantieri e solo successivamente, eventualmente, in grandi opere infrastrutturali.
I micro cantieri secondo MDF dovrebbero riguardare in primo luogo l’efficientamento energetico degli edifici pubblici e privati. Poi anche le bonifiche ambientali e per la messa in sicurezza del territorio rispetto agli eventi catastrofici. In uno studio dell’ENEA del 2009 si proponevano interventi di riqualificazione energetica in 15.000 scuole ed edifici pubblici, che attualmente spendono circa 1,8 Mld di euro ogni anno in energia elettrica e termica. Con gli 8,2 miliardi di euro previsti per il TAV si può risparmiare il 20 per cento dei consumi di questi edifici, pari a oltre 420 mln euro/anno e si possono creare almeno 150.000 nuovi posti di lavoro. Inoltre lavorerebbero decine di migliaia di PMI e artigiani installatori. E siccome a cambiare infissi, montare caldaie di nuova generazione, montare cappotti, costruire case efficienti, rifare tetti, ecc. non servono macchine, ma persone, si garantirebbe lavoro per migliaia di persone facendo tra l’altro ripartire in maniera virtuosa il settore dell’edilizia, attualmente in grande sofferenza.
In un articolo apparso il 13 febbraio 2012 sul Sole24ore si legge che investendo un milione di euro in progetti di efficienza energetica si generano in media 13 posti di lavoro. Non si parla qui di energie rinnovabili, che pure generano 3 o 4 nuovi posti di lavoro per ogni milione di euro investiti, ma del lavoro di «tappare i buchi» dai quali sfugge e viene sprecata gran parte dell’energia che usiamo nell’abitare. Per ogni 10 miliardi di euro investiti si possono avere 150.000 nuovi posti di lavoro di buona qualità, mentre investendo la stessa cifra in grandi opere daremmo lavoro al massimo a 7.300 persone (oltre 20 volte di meno). Gli stessi dati sono stati riferiti dal CRESME.
Dobbiamo poi considerare che i costi delle opere di efficientamento si pagherebbero in pochi anni con il risparmio energetico e in meno di un decennio i soldi investiti sarebbero di nuovo disponibili per nuovi utilizzi. Diventerebbero di fatto dei fondi di rotazione. Immediatamente calerebbe la bolletta energetica e l’inquinamento da CO2. Quindi ci guadagneremmo tutti. Inoltre con commesse piccole e diffuse, i fenomeni di grande corruzione politica, tipici dei grandi appalti, sarebbero certamente più infrequenti. Infine, il denaro speso per far lavorare migliaia e migliaia di piccole imprese e di artigiani, resterebbe nel territorio contribuendo in maniera determinante al riavvio dell’economia.
Nelle audizioni è stato affrontato il tema della gestione virtuosa dei rifiuti che garantisce occupazione in quantità decisamente maggiore rispetto alla filiera attuale, in Italia Arpat Toscana valuta la possibilità di ulteriori 400mila posti di lavoro nella filiera dei rifiuti (amianto, raccolta differenziata porta a porta, RAEE, riciclo e recupero di materia, compostaggio aerobico eccetera). L’ENEA nell’audizione in commissione ha riferito come Il riciclaggio di materiali come l’alluminio, per esempio, richiede solo il 5 per cento della energia richiesta per la produzione primaria. In questo settore si riscontra un significativo aumento dei livelli occupazionali: il riciclo in tutte le sue forme impiega già 12 milioni persone in soli tre Paesi (Brasile, Cina e Stati Uniti); professioni verdi come queste sostengono 10 volte più posti di lavoro rispetto a discariche o all’incenerimento.
L’agricoltura biologica garantisce un posto di lavoro ogni ettaro coltivato nella sua filiera, a differenza dell’agricoltura intensiva che ne necessita di almeno 20 (20 volte meno), azzera l’utilizzo di fitofarmaci e pesticidi con notevoli risvolti sulla salute degli operatori e dei consumatori (fonte: Giovanni Leoni, imprenditore agricolo, agrivillaggio di Vicofertile, Carlo De Angelis della Cooperativa Capodarco seminario al convegno nazionale decrescita e occupazione, aula dei Gruppi – Camera dei Deputati, Roma, 18 giugno 2014. Questi dati sono stati messi in luce anche in audizione dal Sottosegretario per le politiche agricole, alimentari e forestali, Giuseppe Castiglione.
Frane e alluvioni in Italia continuano ad aumentare, da poco più di una media di 100 eventi alluvionali l’anno tra il 2002 e il 2006 siamo gradualmente arrivati ai 351 del 2013 e ai 110 solo nel gennaio del 2014 e a circa 500 mila eventi franosi nel 2013 (su 700 mila nella UE). Gli interventi contro il dissesto idrogeologico garantiscono circa 7 mila posti di lavoro ogni miliardo di euro investito (audizione in commissione ambiente di Erasmo D’Angelis, capo dell’Unità di Missione contro il dissesto idrogeologico) e sono ovviamente indifferibili come dimostrano i gravi eventi meteo degli ultimi tempi. I rappresentanti dell’ENEA in audizione hanno trattato anch’essi il tema della messa in sicurezza del territorio, che, secondo stime del Ministero dell’ambiente, richiederebbe almeno 40 miliardi di euro in 20 anni, cioè 2 miliardi di euro l’anno, con un ritorno annuale di 6 miliardi di euro l’anno tra costi di emergenze evitati e sviluppo economico.
La produzione di energia solare fotovoltaica garantisce circa 3000 posti di lavoro per ogni miliardo di euro investito nella filiera (dati GSE).
La politica deve dare priorità a questi interventi che generano molti benefici per tutti. Le grandi infrastrutture eventualmente si faranno in un secondo momento, dopo aver valutato ogni alternativa e solo quando si avrà la certezza che serviranno davvero.
Alcune attività riferite alla Green Economy si sono rivelate invece decisamente
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speculative, a infimo indice di ritorno energetico e provocando notevoli danni ambientali come la gestione dei reflui con eccesso di sostanza organica sbilanciata (digestato con eccesso di azoto –N- e povertà di carbonio –C-) riversata sui suoli che finisce anche nelle falde; il Sottosegretario per le politiche agricole, alimentari e forestali, Giuseppe Castiglione, ha infatti riferito come la produzione di energia da biomasse e biogas utilizzando prevalentemente scarti e residui delle produzioni agricole e agro-alimentari, che hanno avuto un’enorme diffusione negli ultimi anni. Infatti più di mille degli impianti a biomasse e a biogas realizzati fino a febbraio del 2014 risultano di proprietà di imprese agricole, con un contributo al fatturato del settore pari a circa 2,5 miliardi di euro e con una stima in termini di occupazione di soli 1.600 occupati per gli impianti di biogas, cioè poco più di 600 occupati non strutturali per miliardo di euro, senza contare le cifre investite per costruire gli impianti. Per cui tale filone energetico produttivo va riservato a piccoli impianti di autoproduzione energetica che utilizzino reflui prodotti dalla stessa azienda e non colture dedicate come successo finora, con una speculazione da oltre 23 miliardi di euro fra 2012 e 2013 (spesa per costruire impianti insostenibili e per incentivare la scarsa energia prodotta). Il costo per l’estrazione energetica del biogas e biomasse è 50 volte superiore a quella del solare fotovoltaico (energy USA).
Lo stesso livello quantitativo di occupazione è quella generata dagli investimenti in fonti fossili (carbone e petrolio), che garantiscono circa 150 posti di lavoro per ogni GW, contro i 4400 posti per il solare fotovoltaico, 30 volte di più.
PRODUZIONE ENERGETICA RINNOVABILE:
Rileviamo la proposta di KiteGen, titolare di una tecnologia nuova, che intende sfruttare i venti troposferici. Il progetto base ha svolto quasi dieci anni di ricerca e adesso è a un livello di industrializzazione. Questa tecnologia promette di abbassare molto il costo dell’energia: 10 euro a megawattora, contro i 200-600 euro a megawattora del fotovoltaico, i 90-160 euro dell’eolico, i 60 euro a megawattora del carbone e i 90 euro a megawattora del nucleare. Ipotizzando di riuscire a estrarre e rendere disponibile in continuo anche solo lo 0,1 per cento, ovvero 100 gigawatt, da tale giacimento, l’energia ottenibile corrisponderebbe a oltre 800 terawattora all’anno, valore equivalente a una produzione netta di ricchezza endogena stimabile in 60 miliardi di euro l’anno, una ricchezza paragonabile alla bolletta energetica italiana le audizioni hanno evidenziato inoltre il ruolo del solare termico, solare termodinamico e torri solari (per alcune realtà regionali dove è prevedibile un’insolazione costante), della microcogenerazione (risparmio economico atteso 47 per cento, fonte: metano all’attuale prezzo), emissioni di CO2 ridotte del 60 per cento, possibilità di rete di migliaia di microcogeneratori (sull’esempio tedesco), smart grid.
MOBILITÀ SOSTENIBILE
La riduzione nelle emissioni di CO2 suddivisa in:
Efficienza negli usi finali può arrivare al 47 per cento.
Divisi in:
1. Shift modale trasporti pari al 6 per cento;
2. Efficienza tecnologie Trasporto pari al 6 per cento;
3. Efficienza industria pari al 9 per cento;
4. Efficienza Terziario pari al 11 per cento;
5. Efficienza Residenziale pari al 15 per cento.
Dal settore dei trasporti è attesa la riduzione principale del consumo energetico,
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5,5 Mtep/a (fonte ENEA), seguito dall’industria (5,1) dal residenziale (3,67) e dal terziario (3,1); è superfluo sottolineare il ruolo delle piccole opere di mobilità pubblica nella sostenibilità ambientale e occupazionale, secondo il CRESME potranno avere un impatto occupazionale persino maggiore rispetto al settore della riqualificazione energetica degli edifici.
Rileviamo come la rete infrastrutturale per consentire la mobilità delle auto elettriche attraverso tutta la nazione abbia un costo inferiore a 100 milioni di euro.
L’INTERMITTENZA DELLE FONTI ENERGETICHE:
Per ovviare all’intermittenza di alcune FER sarà importante favorire la diffusione di pompe di calore (anche con batterie ricaricabili), attrezzi agricoli e mezzi elettrici per la mobilità, tutti con batterie ricaricabili durante le ore diurne.
TASSAZIONE e finanziamenti:
Sarà importante prevedere l’IVA agevolata su interventi ecologici, ricostruzione post-calamità naturali, i prodotti dell’agricoltura biologica eccetera, cifre che dovranno essere escluse dal patto di stabilità. Il risparmio privato dovrà avere un ruolo importante in questi piani e cassa depositi e prestiti dovrà fare da garanzia ai prestiti per investimenti ciclici che ripagandosi in circa 10 anni potranno essere nuovamente a disposizione per nuovi investimenti; per quanto concerne gli edifici pubblici questi dati spingono a partire al più presto nelle opere; è necessario che il sistema bancario, attuale interfaccia fra CDP e gli enti, adotti tassi di interesse minimi. CDP non deve invece concedere prestiti alla brown economy, per esempio grandi opere o altre speculazioni presenti o passate comprese le lottizzazioni del piano casa del Ministero dei Trasporti.
CONSIDERAZIONI SULLE STORTURE DI SISTEMA:
Produzione energetica: gli 8 miliardi necessari per la riqualificazione di 15 mila edifici scolastici sono stati spesi annualmente (10 miliardi) nel 2012 e nel 2013 per costruire impianti a biogas e biomasse, con il denaro speso per l’incentivo a questi impianti insostenibili si arriva a circa 25 miliardi di euro in due anni che sarebbero bastati ad estendere il piano scuole a tutti gli edifici nazionali. Le centrali a biogas da colture dedicate hanno avuto un rilievo occupazionale trascurabile, in taluni casi sono avvenuti licenziamenti per la minore qualità di gestione dei terreni nofood. L’energia risparmiata con gli interventi di risparmio energetico è di tre volte superiore a quella prodotta con gli impianti da FER.
L’occupazione è di un sesto per gli impianti solari rispetto al risparmio energetico.
PIL E GREEN ECONOMY
Nell’audizione di Symbola è stato altresì evidenziato che, se si volesse quantificare quanto PIL rappresenta l’insieme delle imprese con la caratteristica di occupati green, si dovrebbe dire che pesano per più di 100 miliardi di euro sul valore aggiunto nazionale. Il 10 per cento, quindi, del prodotto interno lordo, se escludiamo il sommerso, è di green economy già oggi. È necessario spingere l’economia e la società sempre più avanti in questo settore nell’ottica esposta inizialmente della riduzione del TMR.
ESTERNALITÀ AMBIENTALI
Per quanto concerne le esternalità ambientali Il sottosegretario al Lavoro Bobba ha citato i dati OCSE, che ha stimato in 9 milioni il numero di decessi che si potrebbero evitare in tutto il mondo riducendo l’inquinamento dell’aria, delle falde acquifere, decessi che colpiscono prevalentemente i bambini con meno di 5 anni. In termini economici, per citare un solo esempio, sono stimati in 112.000 miliardi di dollari i risparmi complessivi derivanti dal ricorso a fonti di energia diverse dal carbone.
In Italia EBCA ha stimato in 48 miliardi di euro annui le esternalità sanitarie derivanti dalle emissioni. Urge introdurre nella normativa ambientale la necessità dell’esecuzione di uno studio d’impatto sanitario almeno per gli impianti assoggettati a VAS e VIA nazionale, questo contribuirebbe a rendere davvero verde e cost effective la Green economy.
Dati europei
Enel stima che gli interventi in efficienza energetica garantirebbero, infatti, nell’orizzonte spaziale europeo e temporale del 2020 un volume d’affari complessivo, diretto e indotto, compreso tra 352,1 e 511,7 miliardi di euro – con incidenze annuali sul PIL comprese tra il 2 e il 4 per cento (si vedano a tal proposito le considerazioni sulle ricadute economiche) – e una ricaduta occupazionale complessiva compresa tra 2,5 e 3,7 milioni di ULA entro il 2020, con incidenza annuale tra l’1,3 per cento e il 2 per cento del totale occupati (22.648.000 di persone occupate al primo trimestre 2013 secondo l’ISTAT).
Tutto questo potrà essere realizzato solo con il coinvolgimento proattivo di tutti i cittadini, in una rete virtuosa, per realizzare una comunità sostenibile.
«Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta».
Buckminster Fuller
secondo il World Energy Outlook del 2009 il risparmio energetico potrà consentire la riduzione di emissioni di CO2 del 57 per cento al 2030.